by Sergio Segio | 26 Agosto 2011 5:50
Ora che Michela Marzano pubblica il romanzo della sua anoressia (Volevo essere una farfalla, Mondadori, pagg. 210, euro 17,50) diventa palese e affascinante l’uso letterario che aveva fatto della malattia già nei saggi filosofici. La Marzano ha disseminato nei suoi studi centinaia di sintomi. Usa spesso la parola “disincarnato”, “smaterializzato”, e anche, per il mondo modellato dalle imprese (Estensione del dominio della manipolazione), il termine “gabbia”, che nel romanzo è associato al corpo anoressico. Volevo essere una farfalla si propone come una scrittura scucita. Ma non puoi raccontare una storia? le chiede il compagno; ma lei vuole usare una scrittura ellittica, “disincarnata” appunto; “quando si ha una bella idea non si riesce a darle carne, a farla vivere”.
Michela Marzano ha iniziato il suo racconto molti anni prima di questa Farfalla, che dice “gli anni passati con la fame, a punirmi per ogni caloria ingoiata, a mangiare e vomitare tutto”, e suggerisce il ruolo (il peso) delle aspettative del padre – “voglio scrollarmi di dosso il peso del dovere, voglio sentirmi leggera”; “Con me papà è sempre stato troppo pesante – per anni, ho fatto di tutto per diventare leggera come una farfalla… In termini di chili, s’intende”: un padre che compare, letteralmente a ogni pagina, a chiedere la perfezione.
Sotterraneamente, già nei saggi Michela Marzano si è trovata a assumere argomenti e metafore dal suo passato anoressico. Negli interventi sull'”abietto” per esempio: “da ab e jectus, i lemmi di repulsione, ribrezzo rinviano alle nozioni di sporcizia, rifiuto e impurità , che troviamo spesso associate al corpo e alle sue escrezioni. La parola puro designa al contrario ciò che è pulito, immacolato, impeccabile”. Ha scritto (La filosofia del corpo) che “il corpo è impuro per antonomasia perché ingerisce, digerisce, assimila, espelle e secerne”. Ha studiato la body-art dell’artista Orlan, che con le sue performances chirurgiche “si serve della sua carne per esibire l’immagine ideale che ha di se stessa”.
La pornografia (Malaise de la sexualité) mette avanti un corpo “smaterializzato, immune da invecchiamento e imperfezioni”. Il corpo è il luogo di interrogativi esistenziali; è lo “strumento tramite il quale possiamo dimostrare quale specie di essere morale noi siamo”. Per costruire la sua nuova “filosofia del corpo” (Penser le corps, Dictionnaire), la Marzano ha attraversato l’evangelista Matteo (“tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e va a finire nella fogna; tutto questo rende immondo l’uomo”), Nietzsche, Proust (“quando siamo ammalati, ci rendiamo conto che viviamo incatenati a un essere di una specie differente che non ci conosce: il nostro corpo”), Amos Oz, il cyberspazio – in cui gli avatar “non sono più infastiditi dalla pesantezza del corpo”.
Ma a un gioco, a uno svelamento più pericoloso siamo chiamati dal romanzo. “Preferisco lasciare delle tracce. Degli indizi. Tutto è collegato. Basta mettere insieme i pezzi e il puzzle si fa da solo”. Dunque, questa storia è un puzzle. L’autrice non dirà tutto, lo avvisa in esergo. E allora eccoci autorizzati a indagare tra le righe del racconto che si vuole, è inutile dirlo, esile, frantumato e leggero. “Mio padre il francese lo capisce appena”; e: “di filosofia non ne capisce molto”: quasi che le scelte di fondo di Michela Marzano, filosofa di grande seguito in Francia, siano state forme di fuga e scelte di autonomia rispetto all’onnipotente papà ; certo, una sfida.
La sua scrittura non appartiene al genere del mécontemporain, praticato, in Francia, dagli scontenti del presente, gli “scontemporanei” vituperatori del mondo. La protagonista-farfalla esibisce i suoi successi – “non capita a tutti vincere il concorso alla Normale di Pisa”: anche se la tesi, cui si presenta a quota 35 chili, avrà come tema (ancora il problema della perfezione) l'”essere e il dover essere”. Semmai il testo si apparenta al genere dell’autofiction, tra biografia e racconto; e replica i brevi capitoli di Passione semplice di Annie Ernaux o di Incesto di Christine Angot, storie incandescenti narrate in termini oggettivi e spogli. Ma la Marzano sceglie di esprimere l’area dei sentimenti con formule codificate, a volte dolcemente adolescenziali o datate, come le citazioni da cantilene, canzoni o poesie di scuola (Pascoli, Cocciante, Cyrano): tessuto linguistico infilzato a tratti, per inchiodare la farfalla, e poterla studiare, da un termine filosofico. L’intento vigile è tradito dalle riprese dalla letteratura dell’anoressia, la Nothomb (si sente “un imbuto attraversato dal cibo”), Isabelle Caro, la modella fotografata da Toscani, la prostituta Nelly Arcan, la “piccolina di papà ” suicida dopo il successo di Putain.
Scorrono a lampi le amichette, la tbc, la casa avita, le terapie di gruppo, le analisi, i concorsi, gli amori, le conferenze (quando la filosofa si inceppa e invece di dire peur, paura, dice père). Un professore, da bambina, profittava di lei; perché il padre non se ne è accorto? Forse, nell’anoressia, “non c’è nulla da capire”; avvisava la Sontag di non interpretare la malattia come metafora. Certo però ha tutto di un “sintomo”. Certo “c’è stato un non-amore”. Che cosa non ci viene detto? C’è anche, bellissima, una ricetta, “per vivere veramente dovremmo smettere di voler riparare il passato”. Come abbiamo letto all’inizio, “sono anni che ho smesso di cercar di cambiare mio padre”.
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