Debito, speculazione, banche la mappa della crisi globale

by Sergio Segio | 25 Agosto 2011 6:02

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Non si fa che parlare della crisi. L’argomento tocca tutti da vicino. Molte le domande. Alle più importanti provo ad offrire qualche risposta.

Che cosa ha generato l’attuale crisi nell’Eurozona ?
Il valore del debito di uno Stato dipende dalla capacità  e dalla volontà  del suo governo di tassare i cittadini (e/o ridurre le spese) per onorare i propri impegni. Se gli investitori ne dubitano, cominciano a vendere il debito; i prezzi scendono, facendo aumentare i rendimenti richiesti, e quindi gli oneri finanziari per lo Stato. Un aumento che rende il risanamento ancora più difficile. Si crea così un circolo vizioso del debito, che fa scappare sempre più gli investitori e può portare all’insolvenza. E’ quanto successo a Grecia, Irlanda, Portogallo; e ora tocca a Spagna e Italia.
L’euro, eliminando il rischio di cambio e di inflazione, ha abbattuto il costo del debito pubblico dell’Italia. Che grazie alla moneta unica è riuscita a collocarne 800 miliardi all’estero (51% del suo Pil). Ma non ne abbiamo approfittato per ridurre stabilmente il livello di indebitamento (sempre sopra il 110% del Pil), né per fare riforme e ristrutturazioni, perdendo così capacità  di crescita (appena 0,2% in media nel decennio), e competitività : con l’euro, la posizione dell’Italia con l’estero (partite correnti), è peggiorata di 6 punti percentuali del Pil, da un avanzo iniziale di circa il 3%, a un disavanzo del 3%.
La crisi greca ha però dimostrato che l’euro non ha eliminato il rischio di insolvenza. Così, al centro dell’attenzione degli investitori è tornata la credibilità  dei governi nazionali e quindi la richiesta di un premio per il rischio per i più indebitati. Come l’Italia.

Perché la crisi del debito pubblico ha colpito l’eurozona, ma non gli Stati Uniti che hanno deficit e debito più elevati?
Il debito pubblico complessivo dell’eurozona, rispetto al Pil dell’area, è inferiore a quello degli Usa. Ma il loro debito è denominato in dollari, di cui il governo americano controlla il valore. Non lo ammetteranno, ma gli Usa potrebbero ridurre l’onere del debito interno con un’inflazione più elevata, e quello estero svalutando il cambio. I Paesi dell’eurozona non lo possono fare. Inoltre, non possono contare su un sistema di ripartizione dell’onere del risanamento all’interno dell’area: hanno la stessa moneta, la stessa inflazione, ma politiche fiscali indipendenti. La crisi è dunque politica, figlia di un difetto di origine dell’euro: la Germania non vuole l’unione fiscale per paura di accollarsi il debito degli altri; né la richiedono i governi dei Paesi debitori, come l’Italia, per paura di perdere potere economico.

C’è un livello ideale di indebitamento dello Stato?
No. La sostenibilità  del debito è funzione delle aspettative di crescita (un Pil più elevato riduce il rapporto di indebitamento, sia generando un maggior flusso di imposte, sia aumentando il denominatore nel rapporto debito/Pil); e della credibilità  di chi governa il paese nel perseguire il risanamento fiscale.

L’Italia ha sempre avuto un debito elevato: perché i mercati hanno cominciato a penalizzarlo solo questa estate? È opera della speculazione?
Per anni l’Italia si è illusa di poter avere un debito pubblico elevato, pagare bassi tassi, pur crescendo poco. Vivere al di sopra dei propri mezzi è il tipico abbaglio di ha tanti debiti. Alla fine però arriva il conto. La crisi era prevedibile da più di un anno. Lo spread dei titoli italiani si è allargato gradualmente dall’inizio del 2010; e dopo ogni crisi (Grecia, Irlanda, Portogallo, ancora Grecia) si stabilizzava a un livello superiore a quello precedente. Il segnale di una graduale disaffezione degli investitori per il nostro debito.
La speculazione cerca di anticipare i movimenti del mercato per guadagnare di più; e si è messa a vendere Btp quando è stato chiaro che sempre più investitori uscivano dal debito italiano. La speculazione non è causa di un disequilibrio, ne è un sintomo; come la febbre alta con un’infezione. Ma può anche aiutare un governo, se questo riesce a cambiare le aspettative sul futuro dei conti pubblici (come riuscì a Ciampi per portare l’Italia nell’euro): correndo a comperare, accelera la riduzione dei tassi, e facilita il risanamento.

Per il governo, l’Italia non doveva essere al riparo dalla crisi perché ha il deficit pubblico più basso tra i grandi Paesi industrializzati?
E’ una favola per tranquillizzare gli italiani. Contano lo stock del debito e la sua dinamica attesa. Lo stock dell’Italia è già  molto alto (120% del Pil) e pone un problema di sostenibilità  anche se la quantità  di nuovo debito (cioè il deficit) è limitata. La Francia (meno indebitata e più credibile) non è in crisi nonostante un deficit maggiore (4,6% nel 2013). Oggi, il problema immediato dell’Italia non è il deficit, ma convincere gli investitori a rinnovare il debito in scadenza senza aumentare il rendimento offerto: ben 350 miliardi di titoli di Stato scadranno nei prossimi 12 mesi.

E non dovevamo essere al riparo dalla crisi anche per via dell’enorme ricchezza privata?
Altra favola. La ricchezza privata non serve ad evitare la crisi del debito pubblico, a meno che gli italiani decidano di acquistare tutti i Btp che gli stranieri vendono. Ma non lo stanno facendo. Evidentemente, non hanno più fiducia nel governo di chi sta all’estero.

Se la crisi riguarda il debito pubblico, perché crollano i titoli delle banche?
Le banche detengono enormi quantità  di titoli di Stato: per lucrare la differenza tra il loro rendimento e il costo (molto più basso) dei finanziamenti ottenibili dalla Bce, offrendo il debito a garanzia; e per migliorare i ratio patrimoniali (i titoli di Stato sono considerati privi di rischio dalle autorità  bancarie e riducono quindi il valore delle attività  pesate per il rischio). La crisi del debito di un Paese è dunque una fonte di rischio per i bilanci delle sue banche. Ma tutte le banche dell’eurozona sono interconnesse, così il rischio di una si trasmette alle altre. Basti pensare che l’esposizione complessiva (verso pubblico e privati) delle banche francesi e tedesche verso Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia è di circa 1.200 miliardi.

Perché le banche italiane sembrano essere maggiormente colpite, tanto che la Consob ha bloccato le vendite allo scoperto? Come è possibile se hanno tutte superato gli stress test, lanciato aumenti di capitale, non hanno mai fatto finanza esoterica, e sono radicate sul territorio?
Anche le casse delle banche italiane sono piene di debito pubblico. Le cinque maggiori sottoposte a stress test ne hanno per 170 miliardi solo nel portafoglio trading: il quasi 120% del loro patrimonio tangibile (Core Tier 1). Quanto basta perché la sfiducia nei Btp le metta in crisi.
Ma le banche italiane hanno anche un problema di redditività : troppo bassa per attirare gli investitori. In media appena il 3,6% atteso per il 2012 per le maggiori quotate. Sono, insomma, fin troppo radicate su un territorio che non cresce. Con la stagnazione, le previsioni per il margine di interesse vengono riviste al ribasso: rallenta la crescita dei prestiti; il rischio Italia aumenta il costo della raccolta; e la Bce manterrà  i tassi di riferimento per i prestiti molto bassi ancora a lungo. A questo si aggiunge una struttura dei costi tradizionalmente elevata. Il problema delle banche italiane non è la speculazione, ma la mancanza di investitori che vogliano comperare. Infatti la caduta è continuata anche col blocco delle vendite allo scoperto: un provvedimento solo funzionale alla retorica della politica.

Quanto è grave la crisi?
Più di quanto si voglia ammettere. La Bce è intervenuta eccezionalmente a comperare titoli italiani e spagnoli perché i rendimenti richiesti dal mercato per i titoli a 10 anni erano saliti al 6,5%. Nel caso di Grecia, Irlanda e Portogallo, quando i tassi hanno superato il 7% si è cominciato a dubitare della sostenibilità  di un costo così elevato per Paesi che crescono poco: con una crescita dell’ 1%, e il 2% di inflazione, se il costo complessivo del debito sale al 6% bisogna generare e mantenere nel tempo un avanzo primario (ovvero imposte meno spese al netto degli interessi) almeno del 3% solo per mantenere il debito costante. Per farlo diminuire, deve essere maggiore. Il che non è socialmente sostenibile, e quindi poco credibile. In tali condizioni gli investitori cominciano a disertare le aste, non rinnovando il debito in scadenza e tagliando fuori il Paese dal mercato; che può così contare solo sull’aiuto ufficiale dei Paesi creditori. Altrimenti è default.
Nel caso italiano, però, il debito è troppo grande anche per eventuali aiuti ufficiali. Per scongiurare il pericolo la Bce è intervenuta, e ha riportato il rendimento del Btp decennale al 5%. Senza la Bce, la crisi sarebbe già  deflagrata. Ma la Bce non può continuare indefinitamente a comprare debito pubblico che il mercato non vuole, e tenere in vita le banche. La crisi sarà  finita, e l’euro fuori pericolo, solo quando banche e governi saranno nuovamente in grado di finanziarsi autonomamente sul mercato, a costi non proibitivi.

La manovra finanziaria del Governo ci farà  uscire dalla crisi?
No. La manovra, ma anche le proposte dell’opposizione, tendono a minimizzare l’onere per elettori e interessi della rispettiva parte politica. Dovrebbero invece puntare a ristabilire la fiducia degli investitori nel nostro debito pubblico. Questi chiedono interventi capaci di ridurre nel tempo lo stock di debito (e quindi non concentrarsi solo sul deficit del 2013 come fa il governo, ma andare oltre) e di migliorare la capacità  di crescita economica. Per esempio, servirebbe: (1) evitare tutti gli interventi di natura temporanea, come la tassa di solidarietà  o le patrimoniali una tantum; (2) rallentare la crescita della spesa previdenziale, principale voce di costo; (3) eliminare la boscaglia di enti inutili e relativi costi; (4) eliminare, fra le centinaia di detrazioni, deduzioni, facilitazioni, contributi, sussidi, incentivi concesse a imprese e individui, quelli che sono solo canali per foraggiare interessi particolari; (5) privatizzare e vendere beni e aziende pubbliche per abbattere lo stock del debito (i regali, vedi frequenze televisive, non sono ammessi); (6) tassare i consumi invece dei redditi personali e di impresa per non deprimere la crescita, penalizzando chi lavora e produce; (7) tassare stabilmente tutti gli immobili (a valori di mercato) per fornire le risorse agli enti locali, abolendo le addizionali sui redditi.
Di tutto questo non c’è traccia nella manovra. Che non è risolutiva. E quindi non sarà  l’ultima.

Ma non deve essere una manovra per la crescita?
Il primo obiettivo è ridurre stabilmente il debito pubblico. Nel perseguirlo si devono evitare quegli aumenti di imposte che riducono l’incentivo a produrre e lavorare; trasferendo quindi l’imposizione da “lavoro e capitale” a “consumi e ricchezza”. Inoltre, l’eliminazione dei sussidi inutili e la riduzione della dinamica della spesa pubblica potrebbe liberare risorse per la crescita. Comunque, il maggior impulso alla crescita non deve venire dalla finanza pubblica ma da quelle riforme (mercato del lavoro, pubblica amministrazione, giustizia civile, scuola, ….) che da decenni vengono invocate, senza che nulla si faccia per attuarle. Che sia la volta buona? Ne dubito.

Non possiamo far pagare la manovra agli evasori?
La lotta all’evasione non deve essere un modo per far cassa subito, ma una di quelle famose riforme per aumentare la crescita. Oltre ad essere iniqua, l’evasione crea inefficienza perché danneggia le persone capaci e le imprese redditizie a favore di chi è disonesto. Finora, la lotta in Italia è stata fatta con l’inasprimento di pene e sanzioni (inefficaci perché poco credibili); con montagne di documentazione richieste e controlli impraticabili (il numero di controlli che l’agenzia delle entrate può fare è necessariamente limitato); e con norme sempre più dettagliate, complesse e incomprensibili.
Un sistema tributario più semplice sarebbe più facile da far rispettare. E bisognerebbe rovesciare la logica della lotta all’evasione creando un sistema di controlli sistematici, certo e trasparente, che agisca da deterrente. Ho proposto di concentrarsi sulle transazioni finanziarie, perché lasciano sempre una traccia: basta sommare le uscite di cassa complessive (per consumi e investimenti) di un individuo (o di una società  di persone) alla variazione del suo patrimonio, e confrontare il dato con il reddito dichiarato. Una forte discrepanza sarebbe un efficace indicatore di evasione (oltre che di illeciti o corruzione). Per scoraggiarla, non c’è modo migliore della certezza dei controlli finanziari.

La crisi investe l’euro. Non spetterebbe all’Europa risolverla? Gli eurobond sono la soluzione?
Per uscire dalla crisi bisogna prima risanare le finanze dei Paesi ad alto debito. Un risultato che l’Italia deve ancora raggiungere. Pretendere che gli eurobond, da soli, siano la soluzione di problemi che ci trasciniamo da anni, significa negare l’evidenza. Il compito dell’Europa dovrebbe essere quello di finanziare temporaneamente i Paesi in crisi, e che hanno cominciato a ridurre il debito, per evitare che si debbano finanziare sul mercato, o rinnovare i titoli in scadenza, a costi proibitivi. In mancanza di un’unione fiscale (che richiederebbe anni di preparazione, perfino se fosse voluta da tutti) ci vorrebbe un “Fondo Monetario Europeo” (ispirato all’Fmi) che raccoglie risorse sul mercato con la garanzia dei Paesi a tripla-A per erogare prestiti ai Paesi in crisi di debito, in cambio dell’imposizione di condizioni alla loro politica economica. La credibilità  dei Paesi in crisi verrebbe illimitatamente garantita dai Paesi creditori; e gli investitori tornerebbero a comperare il loro debito.
Ma il Fondo di Stabilità  creato a luglio, e ancora da ratificare, non assomiglia a questo ipotetico Fondo Monetario. Non ha le risorse per fronteggiare un’eventuale crisi di Italia e Spagna; e la Germania non vuole accollarsi, estendendo la garanzia, il loro rischio di credito. Non ha indipendenza gestionale (come invece hanno Bce e Fmi), nè può imporre autonomamente condizioni. E creditori come la Finlandia si stanno già  defilando (chiedendo garanzie bilaterali alla Grecia). Flop assicurato se dovesse affrontare una crisi dei Btp e Bonos. La Bce osteggia qualsiasi ipotesi di ristrutturazione del debito, perché farebbe affondare molte banche. E la Germania, a parole, dichiara il suo sostegno incondizionato all’euro, preoccupata che un’eventuale implosione mandi a picco il suo sistema bancario e penalizzi la sua industria. Ma in Europa nessuno decide niente. E i Paesi come l’Italia fanno poco per recuperare la fiducia. Tutto l’onere di tenere in piedi l’euro, le banche, e il debito pubblico dei paesi in crisi, ricade dunque sulla Bce. In teoria, la supplenza della banca centrale può continuare a oltranza, visto che può creare moneta, anche se questo esula dai suoi compiti e in certi casi le sarebbe proibito. La Fed lo sta facendo da anni. Ma è sintomatico di una carenza di potere decisionale, credibilità  e idee in Europa, che rafforza ogni giorno lo scetticismo degli investitori verso l’euro, il debito dei paesi membri, e le sue istituzioni finanziarie; rendendo l’onere per la Bce sempre più gravoso. Arriverà  dunque un momento in cui il mercato imporrà  una decisione netta sul futuro dell’euro. Fra mesi, non anni.

A che servono le proposte di una Tobin tax, del pareggio di bilancio in costituzione e del rating europeo?
A niente. Sono retorica politica per mascherare l’incapacità  di decidere. La Tobin tax, pensata per stabilizzare le valute dopo il crollo del regime dei cambi fissi, viene ora riproposta come tassa su tutte le transazioni finanziarie. Non serve a stabilizzare le aspettative sul debito e quindi a risolvere il problema; e riduce la liquidità  dei mercati perchè sposta le transazioni altrove. Inutile, se non dannoso, il pareggio di bilancio costituzionale. Per convincersene, basta guardare alle recenti vicende statunitensi. Se si raggiunge il tetto della spesa per un’improvvisa recessione, che si fa? Si licenziano i pompieri, si chiudono le scuole, o non si pagano gli interessi sul debito?
Retorica anche il rating europeo. Per valutare il rischio del debito sovrano le società  di rating usano informazioni e analisi di pubblico dominio e facilmente accessibili a chiunque. Il loro giudizio non aggiunge nulla a quanto gli investitori già  sanno. Infatti, il rating si adegua con ritardo ai rendimenti sui titoli di stato richiesti dal mercato. La cattiva pubblicità  non piace a nessuno, ma dov’è il danno? Sono i governi stessi che se lo infliggono, imponendo a banche e investitori istituzionali di acquistare solo debito dotato di un rating elevato. Così regalano alle società  di rating un potere enorme e, più grave, deresponsabilizzano le istituzioni finanziarie dalla valutazione del rischio dei bond destinati ai risparmiatori. Eliminiamo quest’obbligo, responsabilizziamo le istituzioni finanziarie per consigli e scelte di investimento e il problema del rating sparirà . Senza bisogno di creare l’ennesima burocrazia europea.

Infine la domanda che nessuno fa: è possibile che l’euro imploda?
Sì. Il rischio è reale e concreto. Anche se nessuno sa in che modo potrebbe accadere, perché non è previsto nei trattati. Per quanto piccola la probabilità , meglio esserne consapevoli e tenere bene in mente le conseguenze disastrose che avrebbe per il nostro paese.

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