Dalle Rivolte arabe ai rischi per lo stato ebraico

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Ma quest’anno, in pieno Ramadan, con il mondo arabo in rivolta, le brutali repressioni dei dissidenti e i prossimi cruciali appuntamenti, come la richiesta che l’Onu riconosca subito uno Stato palestinese, hanno creato una miscela politica davvero esplosiva. Attacchi terroristici a Eilat, sul Mar Rosso, probabilmente compiuti da estremisti vicini ad Hamas. Rappresaglia militare immediata dello Stato ebraico nella Striscia di Gaza. Morti e feriti. Tutto questo mentre si sta disegnando — almeno nella volontà  internazionale, soprattutto dell’Occidente — la fine del regime siriano di Bashar el Assad, presidente inadeguato, prigioniero del suo clan alauita e responsabile di brutalità  inaudite contro il suo stesso popolo: il leader è arrivato persino a ordinare il bombardamento dei minareti di alcune moschee. Ora dice che le operazioni militari sono finite, ma nessuno ci crede. Tanto che ieri, per la prima volta, il presidente degli Usa Barack Obama ha chiesto che se ne vada. Accompagnando la precisa indicazione con un durissimo inasprimento delle sanzioni. Un atteggiamento di condanna subito fatto proprio da Germania, Francia e Gran Bretagna e, nel complesso, dall’intera Unione Europea.
Le fragilità  del mondo, attraversato da una crisi economico-finanziaria che sta calamitando, quasi in esclusiva, l’attenzione dei mass media e quindi dell’opinione pubblica, stanno producendo in tutto il Sud del Mediterraneo una crisi quasi isterica. Ingigantendo i già  gravi problemi legati ai cambiamenti nell’intero mondo arabo e alla crisi di legittimità  di numerosi regimi che si stanno sgretolando. Producendo poi un effetto domino che non soltanto ha coinvolto tutti i Paesi musulmani della regione, ma lo stesso Israele, turbato da una ruvida protesta giovanile. Una protesta, come prevedevano i più acuti e sensibili intellettuali dello Stato ebraico, che sta mettendo a dura prova la tenuta del governo di Benjamin Netanyahu. I giovani, nel mondo arabo malato cronicamente di autoritarismo ereditario, chiedono libertà  e cambi di regime; nella democrazia israeliana, invece, chiedono giustizia, diritto a un lavoro decoroso, e soprattutto più equità  negli affitti degli alloggi.
È chiaro che l’esecutivo, dovendo far convivere l’anima dialogante con l’intolleranza dell’estrema destra, dopo aver accarezzato l’idea di potersi avvantaggiare con le rivolte nei Paesi arabi, ritenendosi immune dal contagio, oggi si trova in mezzo al guado. Con il rischio di una dichiarazione dello Stato palestinese tra poche settimane. Gli attentati di ieri a Eilat avranno come conseguenza la necessità , giustamente primaria, di affrontare l’emergenza e di proteggere Israele da una nuova campagna di terrore. Del resto, da giorni l’intelligence aveva avvertito del rischio di un imminente attacco.
Quanto sta accadendo in Siria, con il progressivo sgretolamento del regime, è l’ultima cosa che Israele — secondo numerosi analisti — si sarebbe augurato. C’è da comprenderlo. Assad, di cui oggi tanti invocano la partenza, è comunque un laico. E un crollo fragoroso del suo regime aprirebbe le porte ai sunniti, che nel Paese sono la stragrande maggioranza, e anche ai loro estremisti, che da sempre meditano vendette. Ma c’è un altro attore che non si augura la caduta di Bashar. È l’Iran sciita di Ahmadinejad, che sulla tenuta del laico regime di Damasco (unico alleato arabo di Teheran) ha puntato le sue carte. Temendo che una vittoria sunnita rafforzerebbe tutti i suoi nemici, a cominciare dall’Arabia Saudita.
Ecco perché lo scenario di quanto potrà  accadere tra breve, nel Medio Oriente, provoca brividi.


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