Da Waterloo a Westfalia la lezione di storia del superministro «noioso e non ottimista»

by Sergio Segio | 28 Agosto 2011 6:02

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E già  prima che apra bocca si capisce che non è il solito Giulio Tremonti del Meeting di Rimini, senza cravatta, in maniche di camicia, abbronzato, con braccialetti multicolori — «essere un po’ leggero e fricchettone non guasta» disse nel 2010 —, in vena di battute. L’ultima, onestamente non male, rimane quella di inizio estate, quando Brunetta e il gigante Crosetto lo affrontarono alla buvette e lui commentò che gli pareva di essere «nel bar di Guerre Stellari». Ieri, nonostante il lungo applauso in piedi di migliaia di ciellini, Tremonti non aveva proprio voglia di scherzare. Non a caso era vestito da ministro dell’Economia, in grigio con cravatta scura. Sulla manovra, che Alfano e Calderoli gli stanno disfacendo dietro le spalle, neppure una parola. E invece una lunga disamina sulla crisi mondiale, recuperando l’immagine del videogame dove «ogni volta che si abbatte il mostro ne compare uno più grande e più forte. Lo dissi per la prima volta tre anni fa. E ancora non si vede il “game over”».
L’impressione è tale che l’Ansa riferisce una presunta confidenza: «Mi sento deluso e sconfortato per il dibattito interno al centrodestra sulla manovra…». Tremonti smentisce. Voci interne al Pdl gli attribuiscono giudizi severi su Alfano; ma è semplicemente il mobbing anti-Tremonti che è già  cominciato. Il ministro dell’Economia non pensa affatto alle dimissioni. Ma certo la sua posizione è indebolita rispetto a qualche mese fa. Da carta alternativa a Berlusconi, il professore vede oggi il suo destino legato a quello traballante del premier e di Bossi, con la maggioranza pronta a smontare la manovra senza che l’opposizione, a lungo piena di riguardi nei suoi confronti, sia disposta a offrire una sponda. Il punto è che neppure dal Meeting, tradizionale sfilata di ministri e talora giornalisti folgorati dal potere avvolgente di Cl, sono emerse visioni e tantomeno leadership alternative. Comunione e liberazione ha offerto la consueta, straordinaria prova di forza: 3400 volontari — architetti, autisti, interpreti — hanno passato qui le proprie ferie pagando di tasca propria, Napolitano ha aperto i lavori, Marchionne è venuto due volte da spettatore, John Elkann si è fermato due giorni e oltre alla conferenza ufficiale ha incontrato un gruppo di giovani, aprendosi sulla propria esperienza personale. La crisi induce qualche piccolo imprenditore a cercare riparo sotto l’ombrello della Compagnia delle Opere; «a chi mi parla dell’Expo rispondo che se ne occupano gli uffici competenti, non noi» confida il presidente, Bernard Scholz. È evidente però che il governo, mai maltrattato qui a Rimini, non sa bene che fare, e alla fine l’unico ministro in grado di portare un’analisi originale e una proposta concreta — gli eurobond — rimane Tremonti.
Ieri il professore — «Sarò noioso e non sarò ottimista» — è partito da eventi storici su cui ha già  riflettuto in passato, traendo stavolta conseguenze diverse. Waterloo è stata «la vittoria dell’Inghilterra e dell’Atlantico» e la sconfitta del primo progetto di unificazione europea, dietro cui c’era l’umanesimo cristiano, oltre al giacobinismo e alla testa mozza di Luigi XVI: «Il re fu avvisato che era cominciata la rivoluzione, ma si comportò come se fosse una rivolta. Per questo finì sulla ghigliottina. Chi pensa di ricondurre questa crisi ai consueti schemi dei vari cicli economici commette lo stesso errore. Anche questa è una rivoluzione». La pace di Westfalia, che attribuendo ai popoli la religione del loro sovrano riconobbe i particolarismi, è una delle citazioni con cui Tremonti ha conquistato intellettualmente Bossi, che se l’è rivenduta infinite volte; eppure ieri il ministro ne ha capovolto la lettura, presentandola come matrice dei nazionalismi — confermati 270 anni dopo a Versailles — che ancora paralizzano l’Europa. Di Crosetto e dei suoi critici dentro il Pdl insomma Tremonti non ha parlato, ma ha mirato più in alto, tornando ad attaccare «le banche della speculazione finanziaria» e pure i banchieri centrali, «sacerdoti del denaro in perenne riunione», accusati di aver «depistato i governi», promettendo nuove regole mentre «non se n’è vista neanche una davvero seria», per cui le cause della crisi mondiale sono ancora tutte lì. La platea ciellina ha seguito l’elaborazione delle angosce di Tremonti in un crescendo di preoccupazione, e neppure la frase conclusiva di don Giussani — «Le forze che muovono la storia sono le stesse che muovono il cuore dell’uomo» — ha strappato più di un applauso di cortesia. La platea di Rimini è stata affettuosa con il ministro ma è uscita spaesata per il vuoto di prospettive, che la politica italiana non è riuscita a riempire. «Questa idea del ruolo salvifico del governo è un errore, dobbiamo cominciare noi a darci da fare» ragiona Scholz. Il tempo, a cominciare dal vertice di domani, dirà  se il conflitto sempre più aperto tra Tremonti e il premier potrà  essere ricomposto, o se anche il ministro dell’Economia sarà  incluso nel novero di chi in vario modo — Follini, Casini, Fini — si è messo di traverso a Berlusconi e ne è stato abbattuto, come i mostri del videogame. Al Meeting però è apparso chiaro che attutire la manovra, rimpinguare le spese dei Comuni, salvare le Province — magari a discapito dell’Iva e quindi dei consumi — potrà  forse bastare al Cavaliere per ricompattare la sua maggioranza, ma non a rassicurare una società  civile che pure nelle sue componenti non certo ostili comincia a preparare una nuova stagione.

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