Da Lisbona all’asse Parigi-Berlino
Un governo delle Cancellerie contro il disegno di una Ue corale La cerimonia nel 2007 MILANO — Se diventerà regola, la nuova «dottrina» franco-tedesca segnerà un cambiamento profondo nella storia (non solo recente) della costruzione europea. Il Trattato di Lisbona, così faticosamente accettato dai 27 Stati dell’Unione, di fatto diventa un reperto di modernariato giuridico. Il disegno di un’Europa comunitaria, corale, più partecipata dai cittadini, viene spazzato via dal governo delle Cancellerie. Con una conferenza stampa la leader tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy potrebbero aver azzerato un decennio di sforzi, di creatività politico-normativa alla ricerca dei necessari equilibri. Una stagione cominciata nel 2002 con la Convenzione europea guidata da Giscard D’Estaing (con Giuliano Amato vice presidente) e culminata con l’adozione della nuova Costituzione europea, entrata in vigore il primo dicembre 2009. L’emergenza economica rischia di riportarci indietro di trenta-quarant’anni, con la differenza che i «direttori franco-tedeschi» di allora (uno su tutti quello Mitterrand-Kohl) lavoravano per «allargare» il perimetro politico, per rendere più «orizzontale» l’Unione; mentre questo (Merkel-Sarkozy) opera per «restringere», per «verticalizzare».
A che cosa servirebbero i «poteri rafforzati» del Parlamento europeo se le decisioni strategiche passeranno comunque dal tavolo permanente dei Capi di Stato e di governo? Nella architettura della Carta di Lisbona è implicito un ruolo di maggior peso per sei Paesi: Germania e Francia, certamente, ma anche Italia, Spagna e Polonia. Con il tentativo di accorciare sempre più le distanze con la Gran Bretagna, il battitore libero dell’Unione. Se passa lo schema Merkel-Sarkozy, gli inglesi si chiamerebbero automaticamente fuori e il «no» britannico alla «Tobin tax», la tassazione delle transazioni finanziarie, va letto come un rifiuto politico a tutto tondo. Londra, forse, non aspetta altro: è estranea all’euro e, per il momento, appare al riparo degli attacchi della speculazione. Non solo: tutti i governi di Sua Maestà (con l’eccezione del primo Blair) hanno più subito che favorito i progressi dell’Unione europea. Ma il punto è: se viene meno il contrappeso inglese che esercita ancora una forte influenza nei Paesi dell’Est, il baricentro delle decisioni scivolerà inevitabilmente e stabilmente lungo la linea tra Berlino e Parigi. E se il criterio con cui misurarsi diventa solo l’economia è evidente quanto possa diventare impalpabile la dimensione di Italia, Spagna e Polonia.
Ma non è tutto. Ancora dieci anni fa la parola di Pedro Solbes, l’allora commissario agli Affari economici di Bruxelles valeva cento volte di più di qualsiasi «rating» o di una seduta di Borsa. Negli anni d’oro del «patto di stabilità » (intelligente o stupido che fosse), erano i mercati a chiedersi che cosa pensassero a Bruxelles. E non viceversa, come accade oggi. Il «governo economico» prefigurato da Merkel-Sarkozy azzera il ruolo della Commissione europea. Tutto l’apparato degli Affari economici potrebbe trasformarsi, nel giro di poche settimane, in un semplice ufficio studi al servizio dei Capi di Stato e di governo. Diventa un esercizio impietoso scomodare le grandi visioni di Altiero Spinelli o di Jacques Delors per confrontarle con il mesto ripiegamento dell’attuale presidente della Commissione, José Manuel Durao Barroso. Ma ancora: se viene svilita l’istituzione comunitaria per eccellenza, chi ci rimette (politicamente) sono gli Stati piccoli e medi. Non a caso l’Italia, per oltre quarant’anni, è stato il Paese più «comunitario» di tutti.
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