Da Lehman allo choc sul debito

by Sergio Segio | 20 Agosto 2011 7:35

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Da Ben Bernanke a Umberto Bossi. Quattro anni di una crisi estenuante che pochi hanno capito nella sua dinamica e nelle conseguenze — una crisi che purtroppo non ci lascerà  tanto presto — possono essere raccontati anche così, ponendo ai suoi estremi due facce assai diverse.
Quella barbuta del «timoniere» della Federal Reserve che ha fatto assumere rischi enormi alla Banca centrale Usa per cercare di non far scivolare l’economia americana nella depressione. Ma che quattro anni fa, nell’estate del 2007 quando il 22 giugno saltarono i primi due fondi d’investimento della Bear Stearns, non capì la gravità  epocale della crisi che si stava scatenando. E, venendo ai giorni nostri, il volto di un leader del Paese oggi più esposto alla tempesta: un personaggio amante dei rischi e del linguaggio iperbolico, ma anche astuto e politicamente lungimirante che, ostinandosi a difendere le pensioni d’anzianità  diventa, involontariamente, il simbolo di una classe dirigente che non riesce a capire fino in fondo una crisi diversa da tutte le altre vissute a memoria d’uomo.
Una crisi finanziaria di una violenza inaudita, un incendio che ha bruciato un volume immenso di ricchezza e incenerito milioni di posti di lavoro in un Occidente già  profondamente segnato da un processo di una globalizzazione che ha trasferito quote crescenti di produzione e di reddito verso i Paesi emergenti. Un falò che rende ormai totalmente impraticabile un sistema di protezione sociale che già  appariva difficilmente sostenibile nella prospettiva del ritiro della generazione del «baby boom» postbellico dal mercato del lavoro.
Dopo il crollo di Wall Street dell’autunno del 2008 e il collasso di un sistema creditizio che ha ricominciato a funzionare solo nella primavera dell’anno successivo, i governi in giro per il mondo sono corsi ai ripari con i salvataggi delle banche, manovre di stimolo, sostegni all’economia finanziati dagli Stati.
Ma la «benzina» è finita prima che un settore privato traumatizzato e impoverito riuscisse a innescare una vera ripresa sulle due sponde dell’Atlantico. Lo spettro della recessione si riaffaccia, così, nelle grandi democrazie industriali (Usa, Europa, Giappone, con un contagio che ora sembra arrivare fino al Brasile) proprio mentre il contemporaneo aumento dell’indebitamento di quasi tutti i Paesi colpiti dalla crisi fa deflagrare un’altra crisi che covava da tempo: quella del debito sovrano degli Stati. Che è a sua volta generatore di timori circa la tenuta delle banche che hanno investito massicciamente in titoli del Tesoro dei governi occidentali.
Nel più classico dei circoli viziosi, quella stabilità  finanziaria faticosamente recuperata dai mercati, dopo la «gelata» del credito seguita al fallimento della Lehman del settembre 2008, torna in discussione lasciando sostanzialmente disarmati governi e banche centrali che, dopo quattro anni di interventi straordinari, sono a corto di «munizioni».
Ministri stremati dalla crisi, leader parlamentari increduli davanti al mancato ritorno ad una fase espansiva del ciclo economico. Eppure era tutto già  scritto. Ad esempio in «Questa volta è diverso», un saggio già  citato infinite volte, scritto da Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart. Due economisti americani (più volte intervistati anche da questo giornale) il cui testo – un manuale, più che un saggio – dovrebbe diventare una lettura obbligatoria per i «policymakers», governanti o legislatori che siano. Un testo asettico, tutt’altro che avvincente, ma che, ripercorrendo otto secoli di storia delle crisi finanziarie e dei «default» degli Stati, dimostra che quella attuale non è affatto una situazione anomala, stante i meccanismi degenerativi della finanza che l’hanno innescata. Un libro che già  nel 2009, quando è stato pubblicato negli Stati Uniti, avvertiva che l’economia globale era destinata a sperimentare quella che gli autori hanno definito la «Seconda Grande Contrazione», cioè un periodo prolungato di riduzione dell’attività  economica paragonabile solo con la prima contrazione, la Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso.
Quanto allo stupore di chi oggi considera immotivate le esitazioni degli investitori che non comprano più titoli del Tesoro italiano con la generosità  mostrata in passato, per rimettere i piedi per terra basta seguire il racconto delle decine di default anche di Paesi di grande rilevanza economica che si sono susseguiti nell’ultimo secolo, fino a due conclusioni assai nitide: in primo luogo la constatazione che, dopo il «Grande crollo» del 1929, molte economie ebbero bisogno di almeno dieci anni per tornare ai livelli di produzione del periodo pre-crisi. Meglio, quindi, attrezzarsi a una «traversata del deserto» molto lunga. Senza illudersi che «stavolta sia diverso».
La seconda conclusione, proprio perché scritta due anni fa, deve farci riflettere, alla luce di quello che sta accadendo sotto i nostri occhi: «Data la tendenza dei “default” del debito sovrano ad aumentare in seguito sia alle crisi finanziarie globali, sia ai cali dei prezzi globali delle merci, è più che probabile che l’effetto della Seconda grande contrazione sia un numero elevato di “default”, rinegoziazioni e/o massicci salvataggi da parte del Fondo monetario internazionale».
Certo, sono analisi e scenari che possono incidere solo fino a un certo punto sulle scelte di una politica che vive di decisioni quotidiane e quindi, comprensibilmente, tenda a scomporre i problemi in bocconi che possono essere digeriti un po’ alla volta. Questo, però, finisce per favorire analisi che sottovalutano la portata di eventi che i pochi studiosi (da Robert Shiller a Nouriel Roubini) che li hanno previsti – e che ora li stanno interpretando correttamente – definiscono «biblici» o di «dimensioni epiche». In ogni caso una crisi destinata a cambiare i connotati della nostra civiltà .
Vale per i politici, ma anche per gli analisti e gli stessi rappresentanti delle parti sociali che parlano quasi con fatalismo di una ripresa che si fa attendere da troppo tempo, ma che prima o poi si riaffaccerà . Gli esperti hanno avvertito per anni che stava entrando in zona-rischio la stabilità  finanziaria degli stessi Stati, ma la cosa, almeno da noi, non ha scosso nessuno. Pian piano gli allarmi si sono moltiplicati, a partire dalle dichiarazioni-choc del numero due della Brookings Institution, William Gale, che già  nel 2009 avvertiva che ormai nessuno è più al sicuro, che i salvataggi bancari mettevano ormai a rischio perfino le finanze di Svizzera e Gran Bretagna.
Ma nemmeno questo spinse ad accendere la sirena dell’emergenza fiscale di un Paese come l’Italia, già  alle prese con un debito record. Nemmeno quando la Grecia, il Paese più debole dell’Unione, viene messo alle corde. L’Italia è un’altra cosa, è il messaggio che venne diffuso dal tam tam politico-mediatico. Vero, ma non è vero l’altro assunto messo in giro in quella circostanza: ormai il debito pubblico è un problema comune a tutte le grandi democrazie. Noi, che non abbiamo dovuto salvare le nostre banche, siamo stati raggiunti da diversi altri Paesi nel club delle nazioni con un forte debito sovrano. Mal comune mezzo gaudio, insomma.
Purtroppo le cose non stavano così: l’allargarsi a macchia d’olio del problema del debito sovrano dei Paesi occidentali ha innervosito sempre più i mercati finanziari consapevoli che Paesi con le economie che non crescono sono destinati a fare molta fatica a onorare i loro impegni coi creditori. E l’Italia, terzo debitore al mondo e con un’economia «inchiodata», è la più vulnerabile. Allarmi che non vengono percepiti: si rimane nell’attesa messianica di qualche «locomotiva» che venga a tirarci fuori dalla stagnazione, mentre il rigore del Tesoro provoca solo l’irritazione di chi lo considera una manifestazione dell’arroganza e del cattivo carattere di un ministro.
E quando, invece della ripresa, arriva un nuovo collasso dei mercati che stavolta investe in pieno l’Italia, si inveisce contro il maligno speculatore, magari si propone l’ennesimo «pannicello caldo» (come l’idea geniale di vendere la Rai a Murdoch) o ci si infila in una disputa sulla patrimoniale, infiocchettata di inviti alla sinistra a prendere lezioni dal supermiliardario-filantropo Warren Buffett. Che vuole tassare i ricchi, sì, ma nella crociata che ormai conduce da anni fa rifermento all’anomalia di un Paese, gli Stati Uniti, nel quale gente come lui che guadagna cifre enormi finisce, grazie al gioco delle esenzioni, per pagare un’aliquota che raramente supera il 20 per cento (e che, comunque, è più bassa di quella applicata alle persone che lavorano nel suo ufficio, segretarie comprese).
Un altro mondo rispetto all’Italia nella quale chi guadagna molto (e non evade) si vede trattenere ben più della metà  del suo reddito. Questo non significa che, in determinate circostanze, anche un prelievo sul patrimonio o altre forme di intervento fiscale straordinario non possano essere prese in considerazione.
Ma a parlare di tasse sui ricchi, di un futuro «Sky-TG1» o a difendere a oltranza le pensioni d’anzianità  si finisce per perdere di vista il vero problema che è davanti a noi: quello della necessaria riduzione dell’area dell’economia intermediata dallo Stato, ormai giunta a livelli insostenibili. A cominciare da livelli di «welfare» che certamente sono un fiore all’occhiello dei nostri sistemi politici ma che, in un’economia impoverita, non più in grado di mobilitare imponenti volumi di risorse, diventano una palla al piede per i nostri sistemi democratici. Sistemi che, in ogni caso, dovranno affrontare un percorso molto impervio.

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