Così petrolio e ideologia anticoloniale hanno «riscritto» la storia

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Se il pubblico dibattito investiva la Libia, quindi, l’ideologia anticolonialista e il petrolio producevano lo stesso effetto. I ricordi «giusti» erano soltanto le rappresaglie italiane dopo il massacro dei bersaglieri nell’oasi di Sciara Sciat, i prigionieri politici trasportati nelle isole Tremiti sin dall’epoca di Giolitti, la spietata repressione cirenaica del generale Graziani, i campi di concentramento, l’impiccagione di Omar el Mukhtar, le vittime delle mine disseminate dall’esercito italiano nel deserto libico durante la Seconda guerra mondiale.
Tutto vero, naturalmente, anche se certe licenze concesse alle intemperanze di Gheddafi durante le sue visite romane furono un errore di stile politico. Ma quando una verità  ne cancella un’altra, il quadro è necessariamente parziale e incompleto. Accanto alla verità  anticolonialista esiste un «mal di Tripoli», una struggente nostalgia che ha colpito il cuore di molti italiani e non è ancora interamente scomparsa.
Roberto Gaja, segretario generale della Farnesina e ambasciatore a Washington, fu uno dei migliori diplomatici della sua generazione. Ma prima di entrare a Palazzo Chigi, dove era allora il ministero degli Esteri, fu attratto dalla carriera militare, divenne tenente del Nizza Cavalleria e fu mandato a Tripoli per comandare un plotone di cavalleggeri libici. Quando la conversazione cadeva sulla Libia, ricordava con una punta di commozione le perlustrazioni nel deserto, il primo sole dell’alba sulle dune, la devota fedeltà  delle truppe indigene, il sentimento di una missione da compiere. Gaja era troppo intelligente per non sapere che in quei ricordi vi era un po’ di paternalismo colonialista. Ma quando tornò a Tripoli, negli anni Cinquanta, per organizzare il passaggio dell’amministrazione coloniale italiana al giovane regno del vecchio Idris, capo della Senussia, ebbe la sensazione di tornare in una patria perduta. Non so se avesse mai letto i grandi romanzi «coloniali» di Alessandro Spina, uno scrittore italiano di origini libico-siriane. Ma avrebbe potuto esserne il protagonista.
Ho un altro ricordo legato a quel periodo. Nel 1954, tre anni dopo la nascita del regno voluto dal governo britannico, lavoravo a Palazzo Chigi in un ufficio che si occupava dei rapporti economici con l’ex colonia. Da un rapporto dell’ambasciata a Tripoli apprendemmo che re Idris chiedeva al governo italiano il progetto per il piano regolatore della capitale, approvato negli ultimi tempi dell’amministrazione coloniale. Quando mi detti da fare per trovare quel documento, appresi che l’ex podestà  di Tripoli lavorava in una stanzuccia dell’ammezzato di Palazzo Chigi, là  dove i principi del casato alloggiavano i loro servitori. Quando bussai alla porta di Saverio Pagnutti, «direttore di governo di seconda classe comandato dal ministero dell’Africa italiana» conobbi un signore di piccola statura e di poche parole, simpatico e intelligente. Gli archivi, in buona parte, erano andati dispersi, ma Pagnutti ricordava bene il piano regolatore e promise che avrebbe fatto del suo meglio per trovarlo. Devo arrossire se confesso che la richiesta di re Idris mi sembrò un omaggio all’amministrazione coloniale di cui era lecito essere orgogliosi?
Una buona parte delle nostre nostalgie coloniali, del resto, è legata alle trasformazioni urbanistiche di Tripoli durante gli anni Venti e Trenta. Quando divenne governatore della Tripolitania nel 1921, Giuseppe Volpi, il magnate dell’energia elettrica che aveva concepito con Vittorio Cini e Achille Gaggia il grande progetto di Porto Marghera, volle emulare Hubert Lyautey, residente-generale del Marocco francese dal 1912 al 1925. Volle anzitutto restaurare il castello di Tripoli, vecchio presidio di milizie spagnole, pirati saraceni e guarnigioni ottomane, una confusa e pasticciata acropoli di vecchie mura, baracche, caserme, magazzini, torri di guardia. Dai lavori di ricostruzione emerse una sorta di struttura medioevale, falsa ma nobile e marziale. Per gli altri grandi edifici, invece, scelse un pot-pourri di stili architettonici: una dose di neoclassico, un pizzico di bizantino, una spruzzata di moresco e qualche citazione di gotico veneziano.
Nacquero così il Palazzo di giustizia, la Banca d’Italia, la cattedrale, il Grand Hotel municipale, il vicariato apostolico, la moschea di Sidi Hamuda, il monumento ai caduti. Le costruzioni coincisero con l’adozione di un piano regolatore che prevedeva la modernizzazione del porto, il lungomare, alcune piazze, e il quartiere arabo, congiunto alla città  nuova dall’arco di Settimio Severo. Per dimostrare che la Libia era «nostra» da sempre, Volpi avviò i restauri di Sabratha (che qualche cortigiano cercò di battezzare «Sabratha Vulpia») e, più tardi, quelli molto più importanti e impegnativi di Leptis Magna. Per sé, quando non era al Palazzo di governo, volle comprare la «casa del Pascià », una splendida villa turca costruita all’ombra di grandi palme a pochi chilometri dalla capitale. La famiglia ne conservò la proprietà  e la figlia Marina vi passava qualche settimana ogni anno sino alla fine degli anni Sessanta. La visitai nel 1966, tre anni prima dell’avvento di Gheddafi al potere. Seppi più tardi che veniva usata dal ministero degli Esteri libico per i suoi ricevimenti. Chissà  se esiste ancora.
L’altro grande costruttore fu Italo Balbo, governatore della Libia dal 1934 al 1940. Il suo stile architettonico, soprattutto nei numerosi villaggi agricoli edificati per le due grandi immigrazioni dall’Italia (20 mila nell’ottobre del 1938, 10 mila nell’ottobre 1939), è quello razionale e un po’ metafisico delle città  del Littorio che il regime, negli anni precedenti, aveva costruito soprattutto nel Lazio e in Sardegna. Ma vi furono anche villaggi per gli arabi con nomi fiabeschi: la Coltivata, la Deliziosa, la Fiorita, l’Alba, la Nuova. Nella immaginazione degli italiani di Libia la Tripoli belle époque di Volpi e quella più razionale e austera di Balbo fanno parte degli stessi sogni e degli stessi ricordi.
Fascisti o antifascisti, cristiani o ebrei, tutti coloro che furono cacciati dalla Libia nei diversi esodi del secolo scorso hanno conservato o trasmesso ai loro eredi il sentimento di una patria perduta. Basta dare un’occhiata ai bollettini dell’Airl (l’Associazione italiana dei rimpatriati dalla Libia, presieduta da Giovanna Ortu) per ritrovare i pezzi sparsi di quelle memorie: i battesimi, i matrimoni, le cresime, i Bar Mitzvah, le foto di gruppo alla fine dell’anno scolastico, i picnic nelle oasi, le tombe di famiglia. Oscurato dalla storiografia anticolonialista e dalla diplomazia economica dei governi italiani, questo «mal di Tripoli» non è mai scomparso e sopravvive tenacemente nelle tradizioni familiari di molti italiani. Credo che qualche rimpatriato, in questi giorni, si chieda se e quando potrà  tornare nella città  da cui la sua famiglia era partita dopo il provvedimento di espulsione del luglio 1970.


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