Con i ribelli sulle strade infestate dai miliziani

Loading

TRIPOLI — Il ragionamento sembrava filare, almeno in apparenza: «Ieri sera (domenica per chi legge, ndr) le avanguardie della guerriglia sono entrate trionfanti in piazza Verde, accolte dalla folla in delirio, dunque oggi la città  sarà  ancora più festosa». Così riflettevano ieri mattina, in tantissimi, tra le colonne dei ribelli in armi e gli attivisti civili delle rivolte, che a migliaia, già  dopo le otto, davano fondo alle ultime scorte di benzina per tornare a celebrare la caduta di Gheddafi in quelli che sono stati per 42 anni i luoghi-simbolo della dittatura a Tripoli: non solo piazza Verde, ma anche il quartiere Bab al Aziziya, gli odiati uffici di radio e televisione nazionali, i ministeri, le caserme, le prigioni centrali e, nonostante sia di recente costruzione, l’hotel Rixos. Confluivano dalle zone appena liberate della costa e dalla città  di Zawiya, scendevano dalle montagne di Nafusa, dai villaggi a Sud della cittadina contesa di Al Garian. Si aspettavano un lunedì di gioia, la conferma tangibile che l’incubo fosse finito davvero e ormai mancasse solo la cattura di Gheddafi per celebrare la vittoria definitiva.
Ma così non è stato, o almeno lo è stato solo in modo molto parziale. Sulla gioia hanno preso ben presto il sopravvento la paura, la preoccupazione, l’insicurezza. La festa è diventata in poche ore il preludio di un possibile incubo, fatto di guerriglia, attentati, vendette violente. Alle nove della mattina, sulla strada litoranea, si svolge tutto come previsto: «Buonanotte Gheddafi», grida a squarciagola un anziano nel sentire che c’è un inviato italiano. I bambini e le donne applaudono al passaggio dei gipponi colorati dei ribelli, sovrastati da mitragliatrici contraeree. Ogni tanto le raffiche di festeggiamento scuotono l’aria. Molti si soffermano a guardare i cancelli divelti e i resti fumanti di ciò che resta della temibile base della «Brigata 32», bombardata nella notte e saccheggiata dai ribelli. Carcasse di tank e cingolati leggeri, bruciate e già  spolpate, si incontrano sempre più spesso agli incroci, andando avanti sulla strada costiera. Un paio di caserme della polizia, rase al suolo e sbriciolate, ricordano l’effetto devastante e l’accuratezza dei raid aerei della Nato. Ma che le cose non vadano per il verso giusto si capisce subito, entrando nelle periferie di Tripoli.
Negozi serrati, porte e finestre sprangate, quasi nessuno in strada, la sensazione di una città  morta. La corrente elettrica manca quasi ovunque, il traffico è praticamente inesistente, tranne che per le auto dei ribelli. Ogni tanto qualche famiglia assiepata in un’utilitaria scappa verso le montagne. Ai posti di blocco, uno ogni 500 metri, le sentinelle gridano: «Attenti ai cecchini, non entrate mai in strade secondarie, non fermatevi troppo a lungo». In lontananza piovono colpi di mitra e si sentono rombi di armi pesanti. Un gruppo di tiratori del Colonnello spara dai piani alti ai veicoli che transitano presso il nuovo grattacielo dello Sheraton. «C’è battaglia intorno all’hotel Rixos e al compound di Bab Al Aziziya. Vi consigliamo di non avvicinarvi alla piazza Verde, almeno per ora», avvertono un paio di ribelli dalle lunghe barbe nere al posto blocco di Shuk Al Talat.
Raggiunta la strada del lungomare, le colonne in entrata si fermano. Ormai non ci sono più auto civili, solo giovani armati. All’improvviso, ogni tanto, le esplosioni e il sibilo dei proiettili costringono tutti ad accostarsi ai muri delle case. Dalle moschee circostanti gli imam chiamano la popolazione a scendere in piazza, ma allo stesso tempo raccomandano un’estrema cautela. Nell’edificio religioso del lussuoso quartiere di Ghirgaresh sono allineate tre bare di uomini uccisi dai cecchini.
Andando più avanti, si scopre che alcune abitazioni di fedelissimi del Raìs sono state aperte e saccheggiate. È il caso della ricca villa di Al Bakr Younes, consigliere militare di Gheddafi, che si affaccia sul fianco della strada principale nel quartiere di Hai Andalus. Alcuni ribelli indicano con un misto di fierezza e orgoglio militante il luogo dell’esecuzione (sembra che sia avvenuta a sangue freddo) di Milah Al Wasah, noto torturatore fra i ranghi della polizia segreta. Un altro giovane rampollo del regime, il figlio maggiore di Massud Abdul Al Hafid (anche lui consigliere militare), è stato catturato e tradotto nelle prigioni di Zintan. Un anziano mostra la villa di uno dei figli di Gheddafi, Mohammed, e spiega: «Lui in questo momento è agli arresti domiciliari con tutta la sua famiglia, ma è impossibile visitarli o avvicinarsi, ci sono cecchini appostati tutt’intorno alla casa, è pericoloso». La conferma che quella zona fosse molto a rischio arriverà  qualche ora dopo. Nel tardo pomeriggio la televisione araba Al Jazeera annuncia che le forze ancora al fianco del Colonnello hanno aiutato il figlio a fuggire dalla sua detenzione. Sempre secondo l’emittente araba, mentre i ribelli cercavano di mettere in sicurezza le zone più calde della città , alcune truppe fedeli a Gheddafi avrebbero attaccato la casa di Mohammed (uno dei tre figli del Colonnello catturati dai ribelli) riuscendo a liberarlo dopo uno scontro a fuoco con le guardie ribelli.
Per tutta la mattinata non mancano ovviamente le scene di gioia. Adris al Ahlafi, 55 anni, che ha lasciato l’Uganda e il suo impiego di direttore della Tropical Bank per tornare nel suo Paese e unirsi a combattere assieme ai ribelli, ora è felice di applaudirli, quando li vede spostarsi nelle loro uniformi sporche: «È la fine di un terribile incubo. Per 42 anni non abbiamo mai potuto dire la nostra, avevamo perfino paura di pensare in modo diverso da quel che prescriveva il regime. A morte Gheddafi». Un suo vicino porge bottiglie d’acqua minerale ai guerriglieri più giovani ed esclama: «Bevete, non vi preoccupate se è ancora giorno e siamo nel tempo di Ramadan. Allah protegge i suoi eroi».
Lungo le strade non è difficile notare continuamente episodi di generosa militanza. Le cliniche private diventano ospedali aperti a tutti, il personale medico e gli infermieri della città  sono presenti 24 ore su 24. La gente dona il sangue; i ragazzini della rivoluzione si adoperano per far arrivare medicinali, cibo, coperte e generi di prima necessità  anche nelle zone più pericolose. Ogni quartiere ha istituito i suoi corpi armati in poche ore; barricate improvvisate di ferraglia, legno e copertoni di auto sono state alzate quasi ovunque nelle strade secondarie; il pericolo dei movimenti nemici viene segnalato con il passaparola, attraverso un sistema estemporaneo di sentinelle che scruta gli angoli e le case. Anche se molti li tengono perennemente in mano, i cellulari sono senza linee e collegamenti. Impossibile valutare il numero delle vittime. Il portavoce ufficiale del regime, Moussa Ibrahim, due giorni fa parlava già  di «oltre 1.300 morti», ma questa cifra non ha trovato altre conferme nelle ore successive.
Avvicinandosi al centro di Tripoli, crescono la sensazione di pericolo, la minaccia di un’imboscata, la possibilità  di entrare nel mirino di un cecchino appostato sui palazzi deserti. E quando si arriva a meno di un chilometro dall’accesso ai bastioni della città  vecchia, e dunque a pochissima distanza dalla piazza Verde, la situazione si fa drammatica. Gli spari sono via via più intensi, le raffiche più frequenti, fino a che ci si ritrova in una condizione di vera guerriglia. Con sempre maggiore insistenza gira la voce che le milizie scelte di Gheddafi si sarebbero riorganizzate nelle periferie e ora starebbero tornando all’offensiva, più insidiose che mai. Lo proviamo anche noi, sulla nostra pelle. Arrivati verso le 14 al nuovo quartier generale militare degli insorti, che si trova nelle palazzine circondate da alti muri di cemento della ex accademia militare femminile, assistiamo in diretta a un’intensa sparatoria. Il ritmo e la frequenza dei colpi aumenta, invece che diminuire, quando i ribelli rispondono al fuoco. Nonostante nell’area siano piazzati oltre 200 combattenti armati con mitra pesanti, bazooka, cannoni antiaerei e lancia-katiuscia, i lealisti continuano ad attaccare sempre più insidiosi. Una raffica di un’arma di grosso calibro investe la nostra auto, nella parte posteriore, e incendia le taniche della benzina di riserva, che esplode con una grossa deflagrazione. Impossibile salvare i bagagli, compresi il computer e i vestiti. Ma ci è andata ancora bene: nella stessa circostanza muoiono almeno cinque persone, di cui quattro civili. I ribelli contano sette feriti gravi. Per decine di minuti cresce il caos, i colpi rimbalzano nel giardino, nelle stanze, nei cortili. L’attacco diventa un assedio. In piazza Verde per oggi non arriveremo.
Due ore dopo, tornando verso i quartieri occidentali, è evidente l’aumento del nervosismo ai posti di blocco. «Dobbiamo assolutamente evitare che Tripoli cada nella confusione di una guerra tra milizie», dicono decisi i comandi dei ribelli. Ma con l’arrivo del buio e della notte le sagome scure delle palazzine, via via rimaste prive di corrente elettrica, non fanno che aumentare l’inquietante senso di incertezza.


Related Articles

Sì alle armi per il governo di Tripoli E l’Italia addestrerà le loro truppe

Loading

Le decisioni prese alla conferenza di Vienna presieduta da Kerry e Gentiloni

“NON PROTEGGIAMO DAMASCO MA IL DIRITTO INTERNAZIONALE”

Loading

Putin: l’America non è il padrone del mondo   

MOSCA. GLI ultimi avvenimenti concernenti la Siria mi hanno spinto a rivolgermi direttamente agli americani e ai loro leader politici. È un’azione importante in un’epoca in cui la comunicazione tra le nostre società è carente. I rapporti tra noi hanno attraversato diverse fasi. Ci siamo fronteggiati durante la guerra fredda.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment