Compassione senza passione

by Sergio Segio | 13 Agosto 2011 6:37

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L’effetto dell’attacco alla città  simbolo dell’occidente è ancora forte dopo dieci anni, i bambini somali morti non buccano lo schermo. Una linea netta di demarcazione divide gli eventi catastrofici che coinvolgono la civiltà  del consumo da quelli che riguardano la terra di nessuno, la non civiltà . Dove si fermano le mode di abbigliamento e quelle culinari, l’uso degli apparecchi tecnologici più sofisticati, l’internet e la quotazione delle imprese in borsa, si ferma anche la nostra sensibilità . Ci sarà  chi sosterrà  che nella società  dello spettacolo in cui viviamo non c’è spazio per eventi di scarsa o nessuna visibilità  e qualcun altro che vedrà  nella negazione delle catastrofi che non ci toccano direttamente nelle nostre certezze quotidiane una reazione psicologica spiacevole ma inevitabile. In realtà  le nostre reazioni psicologiche sul piano collettivo tendono sempre di più alla superficie e la spettacolarizzazione delle notizie va di pari passo con questa tendenza. Le nostre emozioni di fronte ai drammi umanitari somigliano molto al fuoco di paglia: grandi fiamme che si spengono rapidamente producendo poco calore. Sono emozioni “forti” che bruciano in fretta, liberando l’apparato psichico dalla tensione senza travaglio e elaborazione. E quando il trauma è troppo intenso, perché colpisce al cuore il nostro senso di sicurezza, come è accaduto l’11 Settembre, resta sospeso dentro di noi, non siamo più in grado di significarlo collettivamente in modo adeguato. Abbiamo smarrito la capacità  di mantenere vivo l’impatto delle catastrofi nel nostro mondo interno, con quella loro messa in scena che in passato ricavava dal loro effetto travolgente, la tensione necessaria per interrogare il nostro modo consolidato di sentire, pensare e vivere. Siamo orfani della tragedia greca, di Dante, di Shakespeare, dei grandi romanzi dell’ottocento, delle rivoluzioni artistiche del novecento, dei dispositivi culturali di elaborazione dell’esperienza che avevano il loro baricentro nella consapevolezza che l’effetto più terribile della nostra vulnerabilità  alle forze distruttive è la perdita di senso e l’appiattimento psichico. Incapaci di ospitare dentro di noi, in forme condivise, le forze contradditorie che il “terrore” e la “compassione” (Aristotele), ma anche la “passione amante il lutto” (Gorgia), scatenano, ci rifugiamo nelle prime soluzioni rassicuranti disponibili. Ciò ci priva della possibililità  di un coinvolgimento psichico profondo, il cui esito “catartico” finale derivi dalla trasformazione che lo sgomento, il dolore e il vissuto di perdita imprimono sul nostro modo di essere. Le emozioni con cui cerchiamo di arginare, mascherandola, l’apatia, invece di farsi carico del dolore che fa parte dell’esistenza, e genera come reazione la capacità  di appassionarsi, sono, alla fin fine, frutto della nostra solitudine in mezzo a una moltitudine di oggetti gratificanti. La compassione, quando ne siamo capaci, perduta la passione che la sorregge, si riduce a sentimento autoconsolarorio.

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