by Sergio Segio | 17 Agosto 2011 7:32
L’Europa ci chiede di risanare i conti in cambio del sostegno della Bce. Ciò significa modifiche di tipo strutturale, ovvero con effetti duraturi, alla spesa ed anche al sistema delle entrate. Queste richieste comportano sicuramente riduzioni di spesa e quindi di risorse pubbliche disponibili per i cittadini. Possono perciò a prima vista sembrare in contraddizione con l’agenda europea per il 2020 approvata poco più di un anno fa e concepita proprio come road map per uscire dalla crisi e di cui in effetti non si sente più parlare negli affannosi scambi tra stati nazionali e Unione Europea. Eppure, proprio quella road map potrebbe offrire un criterio per individuare la direzione in cui muoversi per non rischiare di soffocare ogni possibilità di ripresa anche per il futuro. Le tre priorità di quella agenda sono: crescita intelligente, basata su innovazione e conoscenza; crescita sostenibile, allo stesso tempo più “verde”, più efficiente e più competitiva; crescita inclusiva, che produca maggiore occupazione e offra coesione sociale e territoriale. Questi obiettivi comportano da un lato un aumento degli investimenti pubblici e privati in ricerca e innovazione e prima ancora in un miglioramento della qualità e della diffusione dell’istruzione e della formazione continua – tutti settori in cui l’Italia già prima della crisi viceversa investiva molto poco. Comportano cioè una valorizzazione delle risorse umane disponibili, che si tratti di uomini o donne, di giovani e meno giovani, di autoctoni o immigrati. Invece di competere – per altro senza possibilità di successo – con le economie emergenti sulla riduzione dei salari e la bassa qualità dei rapporti di lavoro, occorre competere con la qualità dei prodotti sulla base di una forza lavoro di cui sviluppare appieno le capacità . Ne sono uno strumento anche le politiche di conciliazione famiglia-lavoro. Dall’altro lato, quegli obiettivi, mentre sollecitano una maggiore partecipazione al lavoro remunerato di tutti e per un periodo della vita più lungo, richiedono esplicitamente anche un sistema di protezione sociale universalistico, non un insieme frammentato per categorie e gruppi e inesistente per molti, come succede in Italia per la protezione dalla disoccupazione o per la povertà . La stessa Bce, nelle sue raccomandazioni/richieste di questi giorni, non ci chiede solo una riforma dei rapporti di lavoro che riduca la rigidità nelle norme sui licenziamenti e i contratti a tempo determinato. Ci chiede anche, come chiedono da tempo molti commentatori italiani avanzando anche proposte che sono arrivate fino in parlamento, di superare il modello attuale di protezione, fondato su un dualismo ingiusto tra lavoratori, per lo più giovani, con contratti a termine, e lavoratori con contratto a tempo indeterminato.
Le richieste di Bruxelles e della Bce saranno anche, come ha osservato Monti, eccessivamente mercatistiche. Ma lo spazio lasciato aperto sia da quelle richieste che dall’agenda Europa 2020 è più ampio, rispetto alle opzioni possibili, di quanto non sembri nelle proposte avanzate in questi giorni, specie da parte governativa. Giustamente le parti sociali insistono sulla priorità della crescita, quindi su una riformulazione della spesa che non si limiti a tagliare ma che crei anche le pre-condizioni per cui si possa crescere. Quindi liberalizzazioni, investimenti e non riduzioni in formazione, ricerca, conciliazione tra famiglia e lavoro e riforma della protezione dalla disoccupazione. Per spostare risorse su questi settori, contemporaneamente riducendo il volume complessivo della spesa corrente, i necessari interventi strutturali devono riguardare innanzitutto le inequità e inefficienze: l’evasione fiscale, la troppo bassa tassazione delle rendite finanziarie, le false pensioni di invalidità , ma anche (verrebbe da dire soprattutto) i molti costi inutili e privilegi della politica e dei politici a tutti i livelli, centrali e locali, dello stato e del parastato, incominciando da subito da quelli (stipendi, servizi, vitalizi, enti inutili a partire dalle micro-provincie) che non richiedono riforme costituzionali. Sarebbe un bel segnale di serietà mandato sia ai cittadini italiani che a Bruxelles. Solo se si eliminano queste inequità e inefficienze si può anche discutere di accelerazione delle misure già previste in campo pensionistico (agganciamento delle aliquote alle speranze di vita, progressiva equiparazione dell’età alla pensione per donne e uomini). E si potrà avere il tempo necessario per una riforma dell’assistenza che non aumenti ulteriormente le inadeguatezze di un sistema molto lontano dal modello “inclusivo” evocato dall’agenda europea.
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