Cittadinanza negata per una contravvenzione
Spiacenti, è chiaro che lei non vuole integrarsi, la cittadinanza non fa per lei. Il reato che Fadi Karajeh ha commesso desta allarme sociale e recenti disposizioni di legge che mirano a rendere più «efficace ed incisiva l’azione di prevenzione della criminalità » fanno sì che la sua istanza sia al momento respinta. In breve è questo il contenuto della lettera che Fadi, palestinese della Striscia di Gaza, ha ricevuto il 1 luglio dal ministero degli Interni in risposta alla sua richiesta di cittadinanza italiana. Richiesta formulata dopo 12 anni di soggiorno regolare in Italia come rifugiato Unrwa e dal 2007 come rifugiato politico, durante i quali ha lavorato come saldatore, fabbro, verniciatore e pizzaiolo, ha conseguito due qualifiche professionali e ha collaborato con le forze dell’ordine e il tribunale di Ravenna, città in cui vive, come interprete dall’arabo. Ma qual è allora il terribile reato che lo fa diventare un pericolo per la sicurezza da prevenire? E che dimostra come non abbia «dato prova di aver raggiunto un grado sufficiente di integrazione»? Una violazione all’articolo 186 del codice stradale per cui è stato condannato a pagare una sanzione nel 2005. In altri termini, Fadi Karajeh è stato una volta trovato al volante con un tasso alcolemico superiore al consentito. Un po’ più del doppio del lecito, ma molto meno di quanto serve per farsi, per esempio, sequestrare l’auto. Come centinaia di suoi coetanei in riviera. Era il 2004 e da allora Fadi non ha mai avuto altri guai, né in strada né fuori. Ha pagato la pena pecuniaria a cui è stato condannato.
Ai sensi della legge italiana, la contravvenzione è estinta. E la patente gli è stata regolarmente rinnovata per dieci anni. Alla Prefettura di Ravenna, quando ha preparato la richiesta di cittadinanza, racconta che gli avevano detto di non stare nemmeno a citare quell’episodio, che tanto era un’infrazione di poco conto. Ma lui ha voluto dimostrare la trasparenza di cui va fiero, del resto, pensa, non ho nulla da nascondere. E invece, in nome della prevenzione al crimine, il Ministero ha respinto la sua richiesta e ha dato dieci giorni a Fadi per trasmettere eventuali osservazioni.
E Fadi ha scritto. Una lunga lettera in cui ripercorre la sua vicenda personale e il suo status giuridico. A cominciare dal fatto che lui non ha una cittadinanza, ma solo una nazionalità , quella palestinese. E che, paradossalmente, in nome di quella nazionalità , già nel 2007 gli fu negato lo status di apolide. Oggi questa nuova doccia fredda che sembra togliergli ogni speranza di poter diventare, appunto, un cittadino e di poter godere di quei diritti elementari che la maggior parte delle persone dà spesso per scontate. «Per esempio non posso tornare in Palestina – ci racconta – Il mio passaporto giordano temporaneo non mi è stato rinnovato e la nazionalità palestinese non viene riconosciuta. Non posso andare a trovare mia madre, che è malata, non ho potuto vedere la salma di mio padre, quando è morto. Ho un’eredità che non posso riscuotere. Non avrò diritto nemmeno a una sepoltura, come ho scritto nella lettera al Ministero».
In realtà la lettera Fadi l’ha già mandata anche al presidente Giorgio Napolitano e all’Uhncr. È pronto a far ricorso al Tar e ad appellarsi a tutti gli organismi internazionali per vedere riconosciuto quel diritto alla cittadinanza sancito anche dalla Carta dei Diritti Umani e la protezione di cui deve godere in quanto rifugiato, come stabilito, per esempio, dalla Convenzione di Ginevra. Si chiede se non ci sia stato un “eccesso di potere” da parte di chi ha valutato la sua pratica. Anche il sindaco della città Fabrizio Matteucci ha dichiarato di voler seguire da vicino la vicenda. Fadi Karajeh fa appello a ragioni di solidarietà umana che dovrebbero spingere verso una diversa valutazione del suo caso.
Ci racconta di aver lasciato la Palestina, dove studiava economia, a 21 anni proprio inseguendo il sogno di una cittadinanza, per sfuggire alla discriminazione rispetto ai cittadini giordani. Oggi, a trentatré anni, ritiene di aver subito un’ingiustizia di troppo: «Se per quell’episodio mi paragonano a un criminale – dice – mi fanno sentire tale. Sembra un invito a comportarsi come un criminale». E la domanda successiva non può che essere: «Che modo è mai questo di tutelare la sicurezza?»
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