by Sergio Segio | 26 Agosto 2011 6:18
L’azienda Apple forse può sopravvivere all’uscita di scena del suo fondatore Steve Jobs. Ma il “fenomeno Apple” resisterà alla scomparsa del fantastico stregone? «Jobs non è solo un imprenditore, è un artista».
Così gli rese omaggio perfino lo chief executive che lo defenestrò da Apple nel 1985. Artista anche dello spettacolo: recuperando una mistica New Age, circondato dell’alone del saggio buddista, visionario delle nuove tecnologie, Jobs è l’unico imprenditore da molte generazioni ad avere fondato una religione laica dei consumatori. Esiste una “tribù globale” dei suoi seguaci, in attesa trepidante delle sue apparizioni-happening per il lancio di nuovi gadget, una folla mondiale di ammiratori come non l’hanno mai avuta né Bill Gates negli anni d’oro di Microsoft né i fondatori di Google o Facebook. Il coro dei suoi concorrenti oggi s’inchina rispettoso, in tutta la Silicon Valley e fino a Wall Street il verdetto è unanime, ripete le parole del chief executive di Google: «Nessuno come lui ha cambiato il nostro modo di vivere, consumare, comunicare, informarci».
I mercati ieri hanno cercato di “razionalizzare” la sua uscita di scena, le azioni di Apple hanno chiuso senza perdite. Per più motivi. Primo: quella lettera struggente e tragica con cui Jobs annuncia che «purtroppo è giunto il giorno», non è un fulmine a ciel sereno. La malattia (cancro al pancreas) risale al 2004, il trapianto di fegato è del 2009, l’ultima ricaduta nel gennaio di quest’anno anche se Jobs ha continuato a lanciare nuovi prodotti in pubblico, ammirevole e commovente, ridotto quasi a uno scheletro. La successione è stata organizzata, il nuovo chief executive Tim Cook dopo il rodaggio come vice aveva già preso di fatto i comandi. E poi, insistono i più ottimisti, a 56 anni «Jobs non ha ancora inviato il proprio necrologio». Forse, chissà , lo vedremo ancora salire su un palco? A presentare il prossimo gadget che rivoluzionerà il mondo? Solo il suo medico personale può avere un’idea di quanto gli resta da vivere. Ma la sua magìa è una ricetta maledettamente complicata da replicare senza di lui. Già una volta Apple è stata sul punto di scomparire, perché dieci anni dopo averla fondata nel 1976 lui se n’era andato.
La sua prima intuizione, pur geniale, il personal computer Macintosh pioniere nell’uso del mouse e dell’interfaccia grafico, non era bastato a fare uscire Apple dalla sua nicchia di mercato negli anni Ottanta dominati da Ibm, Microsoft, Dell. Nella lunga traversata del deserto, dal 1985 al 1996, Jobs si era dedicato ad altre invenzioni (la Pixar nel cinema d’animazione) e Apple sembrava agonizzante. Poi il grande ritorno, e l’inizio di una travolgente escalation di successi. Nel 1998 l’iMac ha dimostrato al mondo che i computer possono essere sexy, eleganti, oggetti del desiderio. Nel 2001 l’iPod insieme con il negozio digitale iTunes ha trasformato il consumo di musica, aggirando la pirateria. Infine e soprattutto l’iPhone (2007), il cellulare dalle mille funzioni. E’ su questo che Jobs ha costruito risultati economici sbalorditivi: il chief executive pagato 1 dollaro l’anno ha fatto salire per i propri azionisti (e se stesso) il valore del titolo dai 9 dollari di 10 anni fa ai 370 dollari di ieri. Inaudito il balzo nella capitalizzazione: quest’azienda che per tutti gli anni Ottanta e Novanta fu percepita come una Cenerentola della Silicon Valley, un outsider, oggi è la regina di Wall Street che contende alla compagnia petrolifera Exxon il primato di valore borsistico. Ma queste classifiche sono effimere, il vero segno impresso da Jobs è un altro.
E’ stato il più straordinario creatore di “trend”, di nuove tendenze e abitudini di vita o di consumo nella società digitale. Eppure non ha inventato prodotti autenticamente nuovi: esistevano lettori di musica digitale prima dell’iPod, smart-phone prima dell’iPhone, e anche “tavolette” per leggere giornali e eBook prima dell’Ipad. Lui però ha lanciato in ciascuno di questi settori dei veri oggetti di culto. Le code mostruose che si creavano agli Apple Store (Jobs ha reinventato anche il supermercato di elettronica) alla vigilia del lancio di un nuovo prodotto; la diffusione istantanea dei suoi gadget tra i ceti medioalti di San Francisco e New York, Londra e Berlino, Tokyo e Shanghai: questi sono fenomeni che nessun concorrente è mai riuscito a replicare. E’ sintomatico che la mail di dimissioni di Jobs sia arrivata nella stessa settimana in cui il numero uno mondiale dei computer, Hewlett-Packard, annuncia che uscirà dal settore: è l’effetto-Apple, il successo dell’iPhone e dell’iPad ha creato la convinzione che stia finendo l’èra del computer, perché le stesse funzioni sono ormai disponibili su gadget molto più piccoli, maneggevoli e sexy. E appena una settimana fa Google, che ha smesso di apparirci come un Moloch invincibile, ha reso omaggio al maestro Jobs comprandosi la Motorola: pur di avere dei telefonini da mettere sul mercato. E’ il mix tra intuizione, anticipazione, e carisma del venditore, la dimensione di Steve Jobs che sarà più problematico sostituire. Non solo dentro la Apple, anche fuori.Per la sua azienda, gli ottimisti sottolineano che ormai lo “stile Jobs” è entrato nella testa di tanti collaboratori, che il quartier generale di Cupertino è una «concentrazione di geni». Fingono di dimenticare che il “metodo Jobs” è stato anche uno stile personalistico, maniacale, tirannico, per estrarre dai suoi collaboratori ogni linfa vitale. In quanto ai concorrenti, grandi e piccoli, americani e stranieri, perfino per loro le dimissioni di Jobs aprono un grande vuoto. Chi potranno inseguire, chi dovranno copiare, dopo l’addio del profeta?
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