Biden vola a Pechino per spegnere i timori sul debito americano

by Sergio Segio | 18 Agosto 2011 6:26

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PECHINO — Joe Biden dovrà  essere pronto a tutto. Ai peperoncini, che gli assalteranno la bocca come bande di Guardie — appunto — rosse. E al pepe del Sichuan, dai grani aromatici e pungenti. A tavola con il suo omologo cinese Xi Jinping, al vicepresidente americano serviranno mente sgombra e lingua sciolta per convincere l’interlocutore che l’America «non è in declino» e che la Repubblica Popolare non ha da temere per i 1.165,5 miliardi di dollari in bond statunitensi di cui era titolare a fine giugno. La Cina smania di sentirselo dire.
Biden è atterrato a Pechino ieri sera, lunedì ripartirà  per Mongolia e Giappone. Visita non rituale. La Casa Bianca vuole «investire nel futuro delle relazioni» tra i due Paesi, che sanno quanto sarebbe necessario. E infatti Biden incontrerà  almeno 5 volte Xi, destinato salvo sorprese a diventare leader nel 2012, ovvero segretario del Partito comunista. Un paio di faccia a faccia secondo protocollo a Pechino, quindi il cauto Xi accompagnerà  l’ospite a Chengdu, capoluogo del Sichuan (pranzo informale, ecco i peperoncini), e nelle zone che nel 2008 vennero devastate dal terremoto. Il vice di Obama vedrà  nella capitale anche i numeri 1, 2 e 3 della gerarchia cinese: Hu Jintao, il presidente del parlamento Wu Bangguo e il premier Wen Jiabao.
Meno di due settimane dopo il downgrading inflitto da Standard & Poor’s al Tesoro americano — e dopo le bordate retoriche con cui Pechino ha infranto il proprio dogma sulla non ingerenza nelle faccende interne di altri Paesi — Biden, «libero dalla necessità  di fare promesse elettorali, ha l’opportunità  di spiegare meglio la politica Usa» ai padroni di casa «preoccupati della capacità  di Washington di assicurare disciplina fiscale», ha scritto il Global Times. Quotidiano del Popolo e Xinhua commentano, chiosano, incalzano.
E Xiao Gang, boss della Bank of China (non è la Banca centrale ma un istituto a controllo statale), invita gli Stati Uniti a resistere alla tentazione di pompare denaro fresco, pratica inutile e anzi controproducente. In economia la Cina ha peraltro i suoi problemi: inflazione, i debiti accumulati dalle amministrazioni locali, e anche quando si parla di allargare la banda di fluttuazione del renminbi rispetto al dollaro — come riportava martedì il China Securities Journal — non ci si muove fra tetragone certezze, benché la valuta cinese abbia toccato i massimi da anni rispetto al biglietto verde.
Le difficoltà  di Pechino alleggeriscono la posizione dialettica di Biden. Che dovrebbe rassicurare Pechino almeno su un punto: Taiwan. Washington, infatti, sarebbe pronta a onorare il suo obbligo legale a difendere l’isola limitandosi ad aggiornarne gli aerei da guerra ma non vendendole nuovi jet. Il monaco tibetano che si è arso a morte per protesta lunedì (proprio in Sichuan) accentua invece la pressione su Biden perché, in nome dell’economia, non trascuri i diritti umani: un cronico motivo di attrito insieme con i temi della sicurezza regionale, resi più complessi dai primi test della portaerei cinese. Biden trova però a Pechino un partner affidabile, il neo ambasciatore Gary Locke, che era nella squadra di Obama come segretario al Commercio. Figlio di cinesi, qui è già  simpatico: venerdì notte, all’aeroporto, lui e la famiglia si sono trasportati il bagaglio da soli.

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