Bernanke promette, e tanto basta

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 A un presidente della Federal Reserve si chiede di essere uno e «bino». Il suo compito istituzionale è infatti duplice: mantenere bassa l’inflazione e stimolare la crescita. Accade perciò spesso che di la sensazione di parlare «con lingua doppia», esponendosi al rischio di interpretazioni double face anche abbastanza violente.

Gli è successo anche ieri, nel bel mezzo dell’attesissimo discorso pronunciato a Jackson Hole, nel Wyoming. Ha deluso, come nelle previsioni degli analisti più attenti (o, se preferite, più vicini agli umori della Fed) ogni speranza di una terza fase di quantitative easing; ovvero di immissione di liquidità  fresca sul mercato. Nella stessa occasione, un anno fa, come al solito davanti ai banchieri centrali di mezzo mondo, aveva annunciato una pioggia benefica di 600 miliardi di dollari, per la seconda volta in due anni.
Soldi stampati, «senza sottostante». Un potere magico che si può permettere soltanto il paese più potente – e indebitato – del pianeta. Uno« stimolo» all’economia che alla lunga però produce inflazione e indebolimento della moneta Usa. Proprio per queste ragioni, quella sua iniziativa venne criticata e lo sarebbe stata anche ora; specie alla luce dei deludenti risultati conseguiti. La «crescita» del Pil americano nel secondo trimestre è stata rivista per la seconda volta al ribasso in pochi giorni: 1% appena, meno dell’1,3 «dedotto» in precedenza e soprattutto molto meno dell’1,8% atteso.
La mancata tempesta di moneta fresca ha fatto immediatamente scendere sia le quotazioni di Wall Street che quelle europee, già  alle prese con problemi autoctoni. Poi gli «investitori» rileggevano con più attenzione i passaggi-chiave dell’intervento, scoprendo il lato luminoso. «La Fed ha una gamma di strumenti che potrebbero essere usati a stimolo» dell’economia. Abbiamo discusso i meriti e i costi di questi strumenti e continueremo a valutarli in settembre. la Fed continuerà  a valutare le prospettive economiche e gli sviluppi finanziari ed è pronta a usarli se appropriato per promuovere una ripresa più forte in un contesto di stabilità  dei prezzi». La traduzione non è difficile: siamo pronti comunque a fare quel che serve, magari già  tra un mese.
Questo ha consentito alle borse europee di recuperare dalle acque profonde in cui erano precipitate – con la pesante conferma di Francoforte come peggiore, anche -3% – e a Wall Street di iniziare una delle sue galoppate fantastiche. Nel duplice senso di «molto rapide» e «decisamente immotivate».
Nel discorso di bernake, infatti, non erano certo mancate le note preoccupate. la crescita, ad esempio, «è stata meno robusta di quanto speravamo», anche perché «è stata affiancata da una forte caduta del mercato immobiliare e da una storica crisi finanziaria». E che dire dello «stress finanziario che è stato e continua a essere una significativa zavorra»?
Con un crescita – forse – all’1%, fra l’altro, diventa impossibile recuperare una «disoccupazione elevata sul lungo termine, con la metà  dei disoccupati fuori dal mercato del lavoro per più di sei mesi». Anche se è difficile pretendere, da un banchiere centrale europeo, una frase come «minimizzare la durata della disoccupazione sostiene un’economia più forte», bisogna sapere che non si tratta di «riformismo» buonista; per il successo del «modello Usa» la rapidità  del rientro in un altro lavoro è l’argomento principe contro ogni tentazione di «stato sociale».
Infatti, bernanke chiude ricordando che «la stabilità  economica e finanziaria degli Stati uniti si raggiunge con una traiettoria fiscale sostenibile che assicuri che il debito resti stabile». Nessun accenno – e ci mancherebbe – al fatto che finora gli Stati uniti hanno potuto «stampare moneta» in assoluta libertà  sfuggendo, per questa via, all’obbligo di chiudere il bilancio (tendenzialmente) in pareggio.
I mercati finanziari hanno dunque preso per buona la rassicurazione «nterventista» di Bernanke: anche se rinviata di un mese, sanno che sarà  necessaria (pur se dentro la Fed c’è chi comincia a scalpitare contro il mantenimento dei tassi di interesse a livello zero). I dati macro resi noti ieri sono del resto inequivocabili. A parte l’ennesima revisione al ribasso del Pil, infatti, l’indice di fiducia dei consumatori americani, misurato dall’Università  del Michigan, si è attestato in agosto a 55,7 a fronte del 63,7 del mese scorso. Se non bastasse, l’oro ha ripreso a salire (un «rifugio» vero) e il petrolio a scendere (non ci si attende una ripresa).


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