by Sergio Segio | 14 Agosto 2011 6:49
Grazie al referendum sull’acqua, e alla mobilitazione che lo ha preceduto, il tema dei beni comuni è entrato nel dibattito pubblico italiano. Il successo della formula è certificato anche dalla sua appropriazione da parte del ceto politico (emblematica la conversione in extremis del Pd e del suo segretario alla causa referendaria) il quale punta a sfruttarne cinicamente la forza di suggestione. Non è detto, però, che questa insperata fortuna rappresenti davvero un bene per i beni comuni i quali rischiano di rimanere schiacciati sotto il peso di un consenso tanto diffuso quanto, il più delle volte, superficiale e d’occasione (come, del resto, dimostrato dalla prima fase della recente manovra economica, approvata in tempi record grazie anche all’atteggiamento «responsabile» dell’opposizione, che nella privatizzazione dei servizi pubblici locali ha uno dei suoi punti di forza).
La rivoluzione passiva
Una delle ragioni per le quali la nozione di bene comune si presta ad usi spesso corrivi deve rintracciarsi in un deficit di elaborazione culturale e, in particolare, di elaborazione giuridica. Infatti, l’idea stessa di bene comune incarna un paradigma radicalmente alternativo a quello proprietario, il quale, dal canto suo, individua, insieme con l’idea di sovranità , uno dei pilastri dell’ordine politico e giuridico del moderno. Ora, nel corso del Novecento, a partire dalla Costituzione di Weimar (l’articolo 151 recitava: «la proprietà obbliga»), la cultura giuridica progressista ha lavorato sull’idea di una limitazione dall’interno del diritto di proprietà (la «funzione sociale della proprietà » di cui parla l’articolo 42 della nostra Costituzione), nella prospettiva di un bilanciamento tra gli interessi dei proprietari e gli interessi della collettività incarnati dallo stato in quanto custode ed interprete dell’interesse pubblico. E non è un caso che la nostra giurisprudenza costituzionale, abbia dato il meglio di sé proprio nella costruzione di un sistema di regole finalizzate a conformare il contenuto del diritto.
La funzione sociale traduceva, proprio a ridosso del simbolo stesso dell’ordine borghese, l’istanza solidaristica che ispira lo stato sociale, l’idea, cioè, che la classe dei possidenti dovesse farsi carico dei costi di una più equa ripartizione della ricchezza collettiva, senza, tuttavia, mettere in discussione l’ordine capitalistico. Se è impossibile sottovalutare il peso che le politiche di Welfare State e, dentro di esse, le misure di limitazione funzionale della proprietà , hanno rivestito dal punto di vista di un generale miglioramento delle condizioni di vita dei subalterni, sarebbe, tuttavia, altrettanto erroneo non accorgersi come quella gigantesca «rivoluzione passiva» che fu il compromesso socialdemocratico abbia rappresentato un episodio tutto interno alla dialettica tra stato e mercato, ovvero, se si preferisce, tra sovranità e proprietà , segnato da una temporanea prevalenza del primo nel nome dell’ interesse generale (cioè, dell’interesse del capitale, della sua conservazione e riproduzione perfino contro, ove necessario, gli interessi dei singoli capitalisti).
Dunque, quella stagione politico-culturale è, per intero, iscritta entro l’orizzonte del binomio sovranità -proprietà , sicché ben poco del suo lascito può oggi tornare utile ai fini della costruzione di un paradigma che, come detto, si vuole radicalmente alternativo. Inoltre, quella stagione è ormai alle nostre spalle, essendo stata letteralmente spazzata via dalla controriforma liberista. Anzi, la sistematica demolizione della proprietà costituzionale ed il ripristino di una nozione di proprietà di impronta protoliberale, ha rappresentato una delle principali linee di sviluppo della controffensiva capitalistica, come testimoniano, al di là di ogni dubbio, la giurisprudenza europea cui, dopo qualche tentennamento iniziale, si è uniformata la nostra Corte costituzionale; per non parlare, poi, dell’articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione che ha solennemente restituito alla proprietà il rango di diritto fondamentale estendendo tale riconoscimento, non a caso, anche alla proprietà intellettuale.
Sedimentazione giuridica
È dunque difficile immaginare uno scenario meno favorevole per chi intenda tirar fuori i beni comuni dalla nebulosa in cui ancora si trovano. Con questo non si può dire che si parte da zero. Basti pensare ai fondamentali studi del premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, alla ricchissima letteratura giusecomomica americana su commons ed anticommons, originata dal saggio di Garret Hardin; e, infine al disegno di legge di riforma della disciplina codicistica dei beni pubblici messo a punto ormai tre anni orsono dalla Commissione presieduto da Stefano Rodotà nel quale, per la prima volta, quella dei beni comuni diviene un’autonoma categoria normativa, oggetto di una specifica disciplina. Tuttavia, proprio il caso della «riforma» Rodotà è emblematico della situazione attuale della nostra cultura giuridica e, segnatamente, di quella civilistica, la quale più di ogni altra dovrebbe essere attratta da una discussione sul tema. Infatti, nonostante l’indubbia qualità della proposta contenuta nel disegno di legge, e nonostante il suo carattere innovativo anche dal punto di vista strettamente giuridico, essa ha registrato un’eco piuttosto modesta in seno alla comunità dei civilisti, i quali hanno continuato, imperterriti, ad occuparsi di altro.
Naturalmente, il problema non è quello del trattamento riservato da un ceto di specialisti ad una proposta di legge, per quanto autorevole e ben congegnata. Il problema è che questo episodio rivela un fenomeno più grave e più significativo, ovvero la scomparsa, nella civilistica italiana, con le solite lodevoli ma abbastanza marginali eccezioni, di qualsiasi traccia di quello che un tempo si chiamava spirito critico. Ora, è vero che quello dei giuristi è un gruppo sociale caratterizzato da una vocazione conservatrice, operando, esso, a ridosso del potere politico e del potere economico; ma è altrettanto vero che anche nell’esperienza italiana, gli anni Sessanta e gli anni Settanta furono teatro dell’insorgere, e del diffondersi, tra giuristi (accademici e non) di una soggettività (auto)critica che li portò a mettere in discussione alcuni dei dogmi fondamentali che la tradizione aveva loro consegnato.
A beneficio del mercato
Il trentennio liberista è passato su tutto questo come un rullo compressore. La cultura dei civilisti italiani ha subito un’autentica omologazione nel nome di una totale, incondizionata ed acritica adesione alle formule del nuovo verbo mercatista. Difficile immaginare (al di fuori, forse, degli economisti) un ceto ed un sapere che abbiano preso altrettanto sul serio la parola d’ordine della «fine della storia». Alla Costituzione, neutralizzata nella sua veste di fonte normativa dalla quale promana una spinta emancipatoria, si è sostituita, talvolta, ma non sempre, attraverso la mediazione della law&economics, una nuova tavola dei valori semplificata in cui dominano incontrastati il libero mercato, la concorrenza l’efficienza allocativa: tutto questo nobilitato dalla imprescindibile necessità storica di contribuire alla nascita ed al consolidamento dell’Unione europea, di cui si sono accettati tutti i diktat, anche quelli più palesemente in contrasto con la nostra tradizione costituzionale, senza accorgersi che la cessione di sovranità richiesta ai fini della costruzione della nuova entità sarebbe andata, in realtà , tutta a beneficio dei soli mercati.
Non è possibile, qui, addentrarsi in un’analisi delle possibili cause di questa vicenda.. E tuttavia va segnalato il peso determinante che hanno avuto, per un verso, la crescente penetrazione degli interessi professionali in seno al ceto dei giuristi accademici, sempre più attratti dalle possibilità di guadagno offerte dall’enorme business legale messo in moto dalla globalizzazione; e, dall’altro, il declino e la perdita di prestigio della cultura universitaria, aggravati dal conformismo indotto dalla scomparsa dei «maestri» e dalla loro sostituzione con capi cordata, attenti, quasi esclusivamente, alla gestione dei concorsi. Comunque stiano le cose è certo, però, che non sarà per nulla facile mettere al lavoro, anche in una chiave critica, l’attuale generazione di civilisti, imbevuti di liberismo, sul tema dei beni comuni: e questa refrattarietà del ceto dei giuristi rappresenta, e rappresenterà , un oggettivo elemento di debolezza al quale, come studiosi e come militanti, dovremmo provare a porre rimedio.
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