Aiweiwei. “Luce sempre accesa e minacce vi racconto le mie prigioni”

by Sergio Segio | 8 Agosto 2011 6:20

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BERLINO. Mai la vista della luce del sole. Una cella con la finestra oscurata, la lampadina accesa tutto il giorno. 24 ore su 24 sotto gli occhi dei carcerieri, interrogatori di continuo, minacce del peggio, e l’obbligo di chiedere loro ogni permesso, anche di potersi grattare la testa. Così l’artista critico cinese Ai Weiwei ha vissuto i suoi 81 giorni in prigionia. Li racconta un suo amico, lo scrittore emigrato Bei Ling, in un articolo uscito ieri su Der Spiegel. Proprio mentre Ai Weiwei, come informa la Bbc, torna a farsi vivo su twitter. Non parla di politica, perché in cambio del suo rilascio è tenuto al silenzio. Descrive però i suoi pranzi, e semplicemente scrive «sono qui, saluti». Dà  insomma al mondo prove della sua esistenza.
«Dieci ravioli a pranzo, ho riacquistato tre chili di peso», “cinguetta” Ai Weiwei in uno dei messaggi, ricevuti nelle ultime ore. In un altro: «Cinque spicchi di aglio». Ha anche inviato a Google+ foto in bianco e nero dei suoi soggiorni a New York negli anni Ottanta e Novanta, insieme alla frase «Sono qui, saluti» e a una descrizione ufficiale di lui, «sospetto fan della pornografia ed evasore fiscale».
Evidentemente, Ai Weiwei vuole fornire prove di essere vivo e di sentirsi meglio. Il racconto della sua prigionia, le sue «prigioni», non lo ha scritto lui: se lo facesse, verrebbe di nuovo arrestato. Lo ha stilato Bei Ling, a quanto pare dopo contatti con familiari e amici dell’artista. Fa rabbrividire, più di “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler o de “La confessione” di Artur London, celebri racconti delle carceri staliniane in Europa orientale, evoca pagine di Solzhenystin.
Fu arrestato il 3 aprile da poliziotti in borghese, lo ammanettarono e lo incappucciarono, lo portarono in un carcere fuori Pechino, scrive Bei Ling. La sua cella era di appena sei metri quadrati, e per unico mobile aveva una branda. Ogni angolo – della branda, e persino del rubinetto del lavandino – era smussato e imbottito, probabilmente nel timore che egli volesse togliersi la vita. La finestra era oscurata, la luce restava accesa giorno e notte. Lo svegliavano ogni mattino alle sei e mezza; i poliziotti che lo sorvegliavano senza pausa si davano il cambio ogni tre ore, non lo lasciavano solo un secondo. Lo accompagnavano anche alla toilette o alla doccia. Ha trascorso in quella cella 81 giorni, ha perduto 15 chili. «La mia vicenda è una storia semplice», ha detto Ai Weiwei secondo Bei Ling, «ma per me ogni secondo in quel luogo era un momento di dolore insopportabile». Non sapeva dove si trovasse detenuto, né se mai sarebbe tornato in libertà .
Non è stato mai percosso né torturato, ma sottoposto a pressioni psicologiche pesanti. I poliziotti gli vietarono di portare braccia e mani oltre l’altezza del suo torace. Doveva chiedere il loro permesso anche se voleva grattarsi la testa: «Prego la guardia di servizio di autorizzarmi a grattarmi sul capo», doveva dire. Uno dei guardiani gli disse: «Solo perché tu lo sappia, è previsto che i detenuti che violano queste regole siano costretti a restare in piedi assolutamente immobili. Alla fine ci implorano di sedersi anche per un solo istante».
Gli interrogatori erano continui, in totale sono stati almeno 52. Il personale cambiava di continuo. A volte non sapevano chi egli fosse, gli chiedevano quale crimine avesse commesso. Altre volte gridavano per intimidirlo: «Ai Weiwei, sei svergognato. Mettitelo in testa, la superbia precede la caduta! E lasciatelo dire, ti spezzeremo!». Oppure: «La tua ultima ora sta per scoccare, Ai Weiwei, dicci, chi vuoi vedere per ultimo?». Spaventato, egli rispose: «Mia madre». Altri poliziotti gli chiedevano confessioni: «Dietro a tutto c’è una potenza straniera, altrimenti non sfideresti di continuo il governo». Uno di loro si disse convinto che egli avesse tentato di rovesciare l’ordine costituito. Tra i carcerieri, i più curiosi sull’identità  e la storia del prigioniero apparivano i più giovani. Avrebbero volentieri saputo qualcosa di più su di lui: come si chiamava, perché era stato arrestato. Ma quei giovani curiosi in uniforme non gli parlavano. Avevano probabilmente paura di finire davanti a un tribunale militare.
Oggi, davanti alla casa e atelier di scultore dove Ai è agli arresti domiciliari, gli agenti sorvegliano in permanenza: hanno installato telecamere su alti tralicci, per vedere e riprendere da dietro le finestre, e lo controllano dal comodo di una garitta costruita apposta per loro. Controllano i documenti di chiunque entri o esca.

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