Agenzie di rating troppo potenti Un rischio per le nostre democrazie

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Non è necessario un Nobel in economia per comprendere il senso ultimo di questo drammatico agosto finanziario: la valutazione degli analisti di Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch (o di una soltanto delle agenzie) non soltanto ha un’eccezionale rilevanza sui mercati, ma esercita un peso «politico» sugli orientamenti dei governi e su decisioni che gli stessi governi sono costretti a prendere.
Negli ultimi giorni, si è parlato di «commissariamento» dell’Italia, nel senso dell’inevitabile pressione della Bce (e della coppia Merkel-Sarkozy) sulle misure urgenti del nostro governo. Si è anche riaffermato che l’unione monetaria europea non possa prescindere da un più forte coordinamento politico che limiti l’autonomia (o l’irresponsabilità ) di singoli governi. Ma ciò che sta avvenendo oggi — sulla base non solo di valutazioni, ma addirittura di «voci» di possibile declassamento — è un sostanziale «commissariamento» in tempo reale della politica nazionale, continentale e, in fin dei conti, internazionale.
Ad esempio, è giusto, e moralmente apprezzabile (pensando al futuro dei nostri figli), sostenere che il principio del pareggio di bilancio sia inserito nella costituzione di un Paese, ma lo è meno se una decisione di questa portata è sostanzialmente imposta dalla perdita di una «A» nella classifica dei Paesi affidabili. Il «rischio Francia» dimostra che il giudizio delle agenzie non si limita alla solvibilità  e alla salute dei conti pubblici (Grecia, Irlanda, Cipro), ma investe l’affidabilità  politica (il caso Italia) e può prescindere da essa, come nel caso di Washington e Parigi.
Al di là  di pesanti e legittimi interrogativi sulla trasparenza delle agenzie di rating, sull’autorevolezza e l’interesse degli analisti, dovrebbe essere utile una riflessione sulle conseguenze di giudizi che — condizionando decisioni politiche — influiscono su risparmi e tasse, su tagli di sanità  e pensioni, su spese di qualità , come istruzione e ricerca, in ultima analisi sul nostro modello sociale, sulla vita dei cittadini, sul funzionamento di una democrazia.
Nel luglio scorso, ad Aix-en-Provence, un gruppo di autorevoli economisti discusse la possibilità  di confidare la valutazione dei debiti sovrani a un’autorità  internazionale, ad esempio nell’ambito del Fondo monetario internazionale. È una di quelle proposte che aleggiano da tempo nei convegni, ma che vengono considerate troppo rivoluzionarie.
In queste settimane è ricorsa spesso la metafora del Titanic. Ma i riferimenti a quella tragedia non sono appropriati. Non c’è un capitano disposto ad affondare con la sua nave. Non c’è nemmeno un iceberg sulla rotta: al contrario, esistono sofisticati sistemi di avvistamento, basterebbe utilizzarli correttamente. Gli orchestrali non suonano malinconicamente sul ponte, ma in alcuni casi sembrano allegramente alla cabina di comando. Le scialuppe, queste sì, oggi come allora, non bastano per tutti i passeggeri. In coloro che viaggiano in seconda e terza classe — i ceti medi e popolari — si riducono le speranze di salvezza e aumenta, di conseguenza, la tentazione di buttare a mare gli «altri», gli ultimi arrivati, in una spirale irrazionale di xenofobia, antipolitica, localismo.
A ben vedere, i disordini di Londra hanno qualche cosa in comune con la recente rivolta delle banlieue parigine, con il movimento degli indignados che dalla Spagna e dalla Grecia si è esteso fino in Israele, persino con la primavera dei giovani del Maghreb: c’è una generazione, accomunata dall’informazione globalizzata, umiliata dalla finanza globalizzata, che non aspetta una «tripla A» per far valere il diritto al futuro.


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