Adios Zapatero

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MADRID. Sarà  come se i nonni ereditassero il paese dai nipoti. Una cosa inconcepibile, contro le ragioni del tempo. Abbiamo scherzato. Ci abbiamo provato, avete visto, ma abbiamo perduto. Adiòs, Zapatero. È stata una lunga allegria, poi una lunga agonia. Non bisognerebbe mai illudersi, lo insegnano le favole popolari: i “giorni del vino e delle rose”, come si dice qui, lasciano la testa pesante e odore di fiori che marciscono. “Il tempo è un veliero”, Garcia Lorca si impara a memoria in terza elementare, non c’è chi non sappia in questo Paese in cui niente è come sembra che il tempo vira e va nella direzione del vento, e non sempre è in avanti. Chiunque vinca, adesso, sarà  una seconda linea di seconda mano ripescata dal passato. L’erede di Fraga, dunque di Franco: lo scialbo Rajoy, il cauto, che dopo tante sconfitte potrebbe trovare un varco nel disorientamento del Paese, nella disillusione. Il donchisciotte Rubalcaba, ministro di Felipe Gonzalez, una figura che pare uscita da un quadro di El Greco, il profilo di cera che cola, un dongiovanni dalla prosa barocca che riprende in mano il bandolo del socialismo anni Ottanta e prova a trasformare la sconfitta all’orizzonte in una gara da giocare, la sua ultima partita. Due uomini che quando Zapatero era ancora un deputato di Leòn, che è come dire di Vercelli, già  governavano la transizione, già  concordavano l’educazione democratica di un Paese appena uscito dalla dittatura, coi pesanti compromessi del caso. È dura per un uomo che aveva quarant’anni quando è arrivato al governo promettendo la rivoluzione gentile, il sogno, la cimosa che cancella la lavagna e la lascia vuota per chi ha coraggio e talento, le donne i giovani, la nuova Spagna, il futuro, è dura uscire da una porta secondaria lasciando seduti a contendersi il suo posto in punta di fioretto due campioni stanchi di un’epoca che pareva scomparsa mentre il mondo, là  fuori, reclama giustizia e diritti, una politica nuova, gli indignati per strada, il Paese intero in rivolta.
La maggioranza detesta chi gioca in proprio la sua partita fuori dalle regole della diligenza e del compromesso. Guardatevi attorno, è vero ad ogni latitudine, in ogni schieramento. La classe politica premia chi ha soldi e dunque influenza su chi ne ha, o chi è talmente mediocre da potersi manovrare.
Zapatero non è né l’uno né l’altro, inoltre ha sbagliato alcuni passaggi decisivi. Ha peccato di presunzione e ha fatto della solitudine la sua compagna, non ha ascoltato i vecchi, si è piegato alle ragioni della grande finanza, ha creduto davvero di poter fare da solo, infine ha pagato. Giustamente, dicono ora tutti. Avrebbe dovuto ascoltarci. Quelli che nel 2004 gli gridavano in piazza “non ci deludere” oggi si accampano nelle stesse piazze, delusi e rabbiosi, insieme ai loro figli. Quelli che gli proponevano scambi ancien regime di Palazzo oggi gioiscono: il vecchio democristiano Duran y Lleida, l’amico di Cossiga, è l’arbitro di questa partita. Un po’ come se qui avessimo un Forlani, non un Casini, a decidere le sorti del Paese. I ragazzi che hanno fatto le tende sugli alberi di piazza Catalogna e della Puerta del Sol non se ne fanno una ragione. La rivolta sta riconsegnando il Paese ai sessantenni, ai settantenni. Un paradosso davvero.
Per un quarto d’ora lungo sette anni la Spagna e il mondo intero hanno conosciuto il “socialismo magico”. Quel socialismo, come il realismo di Garcia Marquez, era un sortilegio per cui all’improvviso, da un giorno a un altro, la Spagna è diventata un paese che non aveva paura a sfidare Bush ritirando le truppe dall’Iraq, a sfidare il Papa con le leggi sul matrimonio fra omosessuali e l’eutanasia. Dovete immaginare di vivere in un posto, un po’ come l’Italia ma per certi versi di più, in cui il machismo, la cultura cattolica, l’ordine sociale fondato sul buon padre di famiglia e sull’ipocrisia che ne derivano, per giunta dopo decenni di franchismo ancora vivo sotto traccia, questo posto diventa il Paese dove le lavastoviglie non si mettono in moto se per tre volte è la stessa impronta digitale che le attiva. Dove negli asili vengono consegnati ai padri questionari su che numero di scarpe portino i loro figli, massima riprovazione collettiva se la risposta è non ricordo. Il posto dove la legge del codice penale è più severa con gli uomini violenti che con le donne, pazienza per la costituzione, si tratta di parità  sostanziale. Dove nelle scuole si chiede ai bambini di insegnare ai loro coetanei lo spagnolo perché i piccoli sono in media di 45 nazionalità  d’origine diverse, dove il ministro della Difesa passa in rassegna le truppe incinta di otto mesi, dove le borse di studio si assegnano in base al merito e i cervelli in fuga di tutto il mondo trovano riparo qui. Dove l’obiettivo che il premier indica è che i valori da praticare siano «l’austerità , l’umiltà , l’amore per la libertà , la preoccupazione per la sorte degli altri, l’impegno, l’onesta, la generosità ». Questo il discorso di insediamento, nel 2004. Ecco. Bisogna tornare per un momento lì, perché tutto è cominciato lì.
Quella domenica di marzo del 2004. Quel giorno di polvere e di fumo in cui Madrid ancora cercava nelle stazioni i resti dei 191 morti della strage di Atocha, e intanto si andava a votare. Mariano Rajoy, eletto da Aznar come successore per le sue virtù di “cautela e diligenza”, era il vincitore sicuro. Però il giovedì scoppiò la bomba, un’apocalisse in terra nel centro della capitale, dopo solo silenzio e cenere, sconcerto e fantasmi che giravano senza meta nella metropoli transennata e ululante di sirene. Non c’è chi non ricordi, ancora oggi, il volto livido del ministro dell’Interno di Aznar, Acebes, che diceva in tv: è stata l’Eta. Non c’è chi non sappia adesso come allora che non poteva essere vero, perché nella gerarchia indicibile degli atti ignobili l’Eta mai avrebbe fatto strage di innocenti, era dunque miserabile propaganda elettorale. Il profilo del candidato Rajoy dietro quelle parole. La cautela del Re, che la sera stessa nel discorso alla nazione non fece parola dell’Eta e fece chiamare i giornali per dire attenzione, è altro. Ancora una volta la mano invisibile di Juan Carlos a tirare le fila della storia di Spagna. Tre giorni dopo, la domenica, il deputato di Leòn vinse le elezioni con undici milioni di suffragi. Una cosa mai accaduta nemmeno ai tempi di Felipe Gonzalez, 10 milioni, né di Aznar, anche lui 10. Un avvocato di provincia, ZP, eletto segretario per nove voti. Quella notte Madrid impazzì. Di felicità  dentro il dolore, di sollievo nella cenere ancora sospesa: la cenere di un delitto e di un’epoca. Nel suo primo discorso, a notte fonda (“Buonanotte, Spagna”, il primo applauso), Josè Luis Rodriguez Zapatero, che vuol dire ciabattino – le parole hanno una segreto nascosto – chiese da principio un minuto di silenzio per le vittime della strage. Sette anni di governo cominciati con un lutto, e poi con la promessa: «Sarà  un cambio tranquillo. Il potere non mi cambierà ». Subito dopo, l’iradiddio. Le truppe ritirate dall’Iraq, la sedia di Bush vuota accanto alla sua, lo strappo con gli Stati uniti, lo strappo con la Chiesa al momento di dire sì ai matrimoni gay.
Rouco Varela, presidente della Conferenza episcopale, che porta in piazza moltitudini. La Spagna è Opus Dei. E’ signore con le perle vestite di marron, madri di otto figli. E’ il potere di AP, il partito di Aznar nato da sette gerarchi di Franco. Anche Rajoy viene da AP. «Il problema è stato averlo chiamato matrimonio», mi disse allora il vescovo di Valencia, tra i potenti della Chiesa. Il problema era nelle forme. Ma Zp, l’uomo con gli occhi da Bambi, rispose che l’amore non conosce regole. Erano gli anni in cui il film di Alejandro Amenabar, “El mar adentro”, andava agli Oscar, 2005. La storia vera di Ramon Sampedro, un manifesto per l’eutanasia. Gli anni de “La mala educaciòn” di Almodovar, la pedofilia negli istituti religiosi. Il socialismo magico dava guerra al clero e gli spagnoli – la seconda generazione, ormai i nipoti del franchismo – erano lì.
E’ nella seconda legislatura, quella iniziata nel 2008, che Bambi è diventato Mister Bean. L’ingenuità  infantile è diventata difetto senile. La straordinaria campagna ostile di Cadena Cope, la potente radio dei vescovi, ha condotto l’opposizione che la destra non riusciva a fare. La giovane moglie musicista, Sonsoles Espinosa, e le due figlie ragazze bersaglio di satira crudele. Intanto la crisi economica alle soglie, e il primo davvero grande errore: negarla. Gli spagnoli ubriachi di opulenza e di redditi improvvisamente floridi grazie soprattutto alle grandi opere, all’edilizia e al suo indotto hanno fatto finta a lungo di credergli. Socialista nei criteri di spesa, conservatore dei criteri di entrata Zapatero ha finto di non vedere. Promuoveva leggi sulla Memoria Storica, abbatteva le statue del franchismo e intanto il fiume carsico dell’antica destra era lì che scorreva e aspettava. Il giorno fatale è stato il 15 maggio del 2010, quando la Comunità  europea, il Fondo Monetario, i grandi poteri economici e tutti i DSK del mondo hanno preteso e ottenuto che la magia del socialismo di Zp smettesse di giocare con la realtà . Tagli pesantissimi, pensioni a 67 anni, fine dello stato sociale, testa china alle banche. Fine del socialismo dei cittadini. Inizio di Mr Bean. Sonsoles, la moglie, ha cominciato allora a dirgli: ritirati. I vecchi signori delle tessere hanno ricominciato a lavorare nell’ombra, lasciandolo giocare ancora un po’ col suo femminismo, con la sua ingenuità  già  sconfitta. Sono loro che hanno fatto fuori Carme Chacon, candidata naturale alle primarie ed eletta di Zp ma troppo debole anche per via di vecchie storie sentimentali che avrebbero comunque favorito Rubalcaba. Avrebbe voluto le primarie, Zapatero, e non le avrà . Avrebbe voluto finire la legislatura e tornare a pescare a Leòn, ritirandosi a scadenza naturale. Dovrà  invece anticipare di quattro mesi, glielo hanno chiesto la settimana scorsa i signori delle banche e della finanza, poi in modo esplicito El Paìs. Non c’è partito politico disposto ad appoggiarlo più. Non poteva approvare il Bilancio, a novembre: sarebbe stato in minoranza. Dunque ci sarà  una proroga sui conti pubblici, se ne occuperà  il prossimo governo. Si vota il 20 novembre, anniversario della morte di Franco. 36 anni dopo. E’ stato il suo ultimo “invento”, la sua ultima astuzia machiavellica. Magari sulla spinta dell’antifranchismo, a sostegno della democrazia, il popolo del 15 M – gli indignati – in una data così carica di potere simbolico potrebbero addirittura preferire Rubalcaba a Rajoy. Chissà , è una guerra tra veterani. Zp esce di scena, torna a Leòn. Il veliero del tempo è fermo prua al vento. La magia già  da un pezzo svanita. Socialismo del popolo, arrivederci. Zapatero, adiòs.


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