by Sergio Segio | 31 Luglio 2011 7:53
L’idea della cultura, dunque, la metafora stessa che ha generato questa parola, porta con sé l’immagine che la mente dell’uomo sia una terra da accudire con pazienza contadina, con caparbia lentezza e quotidiana dedizione, e che i libri la fecondino e la rigenerino.
Rifacendosi al concetto di biodiversità , di attenzione a preservare la varietà delle specie animali e vegetali, alcuni editori cileni indipendenti hanno coniato alla fine del secolo scorso il fortunato termine di «bibliodiversità », che si collega direttamente, si direbbe, a quell’antica idea di cultura e alla possibilità di coltivare in sé molte specie di libri – come invitando a perseguire nella letteratura e nella arti quella che Bateson definì «ecologia della mente».
In questa visione della cultura è interessante pensare ai bestseller come a una coltivazione intensiva e industriale del terreno delle menti che lo sfrutta e lo impoverisce proprio come avviene ai campi che non sono sottoposti all’avvicendamento delle colture. Non meno, la bibliodiversità va fatta valere anche in un’altra direzione: la moltiplicazione mucillaginosa dei brutti libri, infatti, è grave tanto quanto il predominio di pochissime specie di libri su tutte le altre, e i libri di qualità sono minacciati verticalmente dalla schiacciante quantità dei bestseller venduti non meno di quanto siano minacciati orizzontalmente dalla asfissiante quantità dei libri mediocri pubblicati. Praticare la bibliodiversità significa dunque non solo difendere la complessità , la varietà delle scritture, nel rapporto verticale con pochi ma opprimenti bestseller ma anche difendere l’eccellenza, l’unicità delle scritture, nel rapporto orizzontale con troppi libri di second’ordine.
Complementare e non meno cruciale di praticare la bibliodiversità dovrebbe essere praticare anche una decrescita virtuosa nella pubblicazione dei libri o quantomeno una crescita più sostenibile, privilegiando la qualità alla quantità , pubblicando meno libri per pubblicarli meglio, per farli vivere più a lungo. Coltivare i libri unici attraverso la bibliodiversità ed estirpare i libri simili attraverso la decrescita editoriale significa applicare l’ambientalismo e la crescita sostenibile alla cultura e alla produzione della cultura, declinando in questo campo le due grandi teorie intrecciate del pensiero politico che hanno saputo meglio contrastare, negli ultimi decenni, i deserti e le derive causati dal capitalismo e dal consumismo: significa, in altre parole, fare della bibliodiversità e della decrescita editoriale i criteri costitutivi di una nuova ecologia culturale, di un tentativo di contemperare i valori dell’economia con i principi dell’ecologia nella coltivazione dei territori della cultura.
Solo concependo così la cultura, solo considerandola alla stregua di un bene comune come l’acqua, come l’ambiente, si può realmente preservarla e migliorarla. Un bene comune, che appartiene per definizione a tutti, non può essere gestito soltanto secondo gli interessi di pochi, perché i suoi prodotti, proprio come la sua proprietà , riguardano tutti, anche coloro che non ne usufruiscono direttamente: la qualità dei libri deve interessare anche chi non legge, la mediocrità dei teatri deve preoccupare anche chi non li frequenta. Né i benefici né i danni che derivano dal buono o dal cattivo stato di conservazione di un bene comune possono infatti essere circoscritti – la salubrità o l’inquinamento della cultura è simile in questo a quella dell’aria. Proprio per questo un movimento di intellettuali com’è TQ dovrebbe sviluppare una ferrea coscienza di ecologia culturale e porsi come un soggetto al tempo stesso di azione e di controllo, di proposta e di critica, un WWF dei grandi libri del passato e del presente, un vigile Greenpeace della cultura che renda infine più respirabile l’aria del nostro tempo.
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