Venezia, arte a tolleranza zero

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Per qualunque tipologia o specie o classe o genere di opere o lavori o prodotti o azioni «d’arte», ognuno sa che la categoria del Bello è ormai «out» da tempo. Si sa che qualcosa ha un senso se è una metafora di un’altra cosa: ci viene ripetuto ogni giorno. E riscuote consensi soprattutto se è contro qualche cosa: si canta e si balla e si allestisce e si installa soprattutto contro le guerre, contro la fame nel mondo, contro i corrotti, contro la depressione e altri disturbi, contro qualche flagello fra i molti che affliggono l’umanità . Dunque si applaude soprattutto e preventivamente l’impegno. Ma non si usa più tornare sull’evento in forma di recensione.
Generalmente, le trasgressioni provocano le provocazioni. E anche viceversa. Disubbidienze. Irriverenze. Dissacrazioni. Infrazioni impietose e scomode. Fra le centinaia di mostre e le migliaia di artisti in rassegna a Venezia, nulla predica moderazione o discrezione, sobrietà  o parsimonia, continenza o temperanza. Al contrario, regnano e impazzano le sfrenatezze e sregolatezze, con soddisfazione complessiva. Intolleranza, intitolava Luigi Nono mezzo secolo fa. E Tolleranza zero si titolano adesso tante costose installazioni contemporanee.
Con basso profilo, invece, qualche turista si chiede piuttosto cosa avverrà , fra qualche anno, delle immense opere vaste molti metri quadrati e destinate a qualche sconfinato museo piuttosto che a un palazzo o a un loft, magari in fila sulle pareti. Saranno vittime di qualche taglio alla cultura? Passeranno di proprietà  in seguito a rovesci finanziari, come qui è capitato spesso? O finiranno in qualche deposito?
Nel caso dei lavori seriali e multipli – file di scaffali, cassetti, sedili, schedari, lucidi o malridotti, per le serie «Senza Titolo» – spicca l’affinità  coi sostegni ugualmente molteplici per le passerelle dell’acqua alta. Sono visibili nel retro di ogni albergo, per non far bagnare i clienti.
In quanto al territorio, esaminando le scarpe che vi hanno camminato sopra, ecco (dal gigantismo al minimalismo, sotto le suole) una mini-costellazione di gomme, cicche, cifre, sigle, mozziconi in continuo divenire tenendo insieme identità  anche lontane. Come nei collages del primo Novecento.
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All’Arsenale, il padiglione italiano rappresenta un ingrandimento delle tante trattorie nostrane ove tanti artisti hanno dato tante opere che riempiono le pareti a tutte le altezze. Soprattutto a Rialto. E molti se le appenderebbero anche in casa. Tra foto, vignette, filmini di gente qualunque, video con sfasci e sgorbi, campionari di sfasci e plastiche e metafore, spiritosate su marchi commerciali e immagini celebri, passaggi bui, rallentamenti e accelerazioni, vaniloqui assordanti ad alto volume, mucchietti di residui senza talento né titolo…
Ma l’Italia non è né meglio né peggio del resto. Noti e ignoti qua da noi raccomandano amici e colleghi anche intercambiabili e magari poco raccomandabili. «Siamo il paese della raccomandazione, no?», rideva Moravia. E se si fosse chiesto di raccomandare qualche musicista contemporaneo… Aiuto?… Però non è vero che «L’arte non è cosa nostra», come premette un avviso all’inizio. E come conferma ogni visita. Avendo visto il resto, non pare neanche cosa di altri.
Ai suggestivi e densi spazi principali della Biennale ai Giardini, infatti, molte oscillazioni tra figurazione e astrazione e cartoon e sfascio. Un capolavoro sembra il padiglione svizzero, colmo di scatafasci fino al tetto, e un minaccioso avviso che li decreta (speriamo!) provvisori. Tante tubature, poi. E installazioni con angolature asimmetriche e indicazioni sballate, per i più piccini. Manualità  meticolose o sbracate. Spagnoli d’attualità  fra indignados e inadecuados. Belgi con film di protesta contro i peccati del capitalismo al potere, e molte grazie per la ministra culturale che li ha pagati. Rantoli. Opere aperte olandesi con pavimenti di specchi, scalette, gradini, quinte teatrali, pianola meccanica. Qualche tulipano. A un tratto – sorpresa! Una Ultima Cena risolutamente sbilenca e non frontale di Tintoretto, fra una Creazione di Animali e un Trafugamento del corpo di San Marco. Più su, incalcolabili piccioni imbalsamati o creativi. Più giù, innumerevoli «courtesy of».
Situazioni. Posizioni. Occasioni. Semplificazioni. Graffitisti teppisti tolgono una “A” alla «Illumin-nazioni» della Biennale che così diventa «Illu-minzioni». I soliti spiritosi. Sinistre foto di bidonville in desolate periferie. Interrogatori perentori con risposte apparentemente portentose come le massime in neon violetto da hall concertistica. Parallelepipedi in travertino lucidato o plastica grezza. Tappezzerie biedermeier, e ancora qualche punk con la crestina rossa. Cassette vuote multiple, facce di statisti come su copertine di vecchi lp. Ed è la Danimarca.
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USA. Un carro armato capovolto, per la gioia di grandi e piccini fotografi. Poi, una statua di ghisa coricata, sedili “vintage” da ufficio fatiscente. Sponsorizzazioni. Russia, una navata di cordami con film e foto di quotidianità  nevose e desolazioni industriali. Letti a castello. Germania: altra navata smunta, e testimonianze di disgrazie, da toccarsi ininterrottamente le palle. Gran Bretagna, un piccolo vecchio carcere basso e claustrofobico, con avvisi di abbassare la testa. Svezia: cacche molto scure di animali nordici. Ma se sono solo test psicologici, peggio per loro. In Francia, scorrono pellicole di Boltanski fra tubature industriali fracassone. In Venezuela, fumettacci con teste di politici, tipo cartoon infantili. In Israele, oleodotti e gasdotti. In Brasile e Jugoslavia ed Egitto, barili e bidoni, rifiuti e monnezza, manifestazioni con fuck, shit, vomit… Ci si domanda quindi se invece di puntare un popolare kalashnikov non sarà  più efficace puntare un «vaffa» per spiazzare le varie aspettative di così tante provocazioni e trasgressioni. Una signora romana, in gondola, va del resto invocando: «Ammazzalli tutti, questi che ce comandano, co’ ‘sto caldo».
A Palazzo Grimani, nel cortile, tre vecchie barche malandate su un tavolino rococò. E’ un richiamo a un’opera artistica, per cui si paga il biglietto: tanti barconi sovrapposti e carichi col titolo «Lampedusa». Installazione! Ma ecco i soffitti di Veronese per San Sebastiano, restaurati. E con la sorpresa di una «verticale di putti» – non la sua solita magnifica linea sbieca – sopra un convito trionfale. L’altr’anno si contemplava qui da vicino, in intimità  e solitudine, la magica «Tempesta» di Giorgione. Ricordando Mimise Guttuso: narrava che da bimba, prima della rovina della stirpe Giovanelli, rimirava la stessa «Tempesta» sopra il suo letto, giacché in quel palazzo i capolavori erano appesi nelle stanze per gli ospiti.
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Fra i più illustri, ai Magazzini del Sale, Emilio Vedova. Bellissimo allestimento di espressionismi espressivi in nero e bianco addirittura fotografico: un «continuum di compenetrazioni» addossate e appoggiate frontalmente senza inizi né fini. E la memoria del suo gigantesco ironico barbone: «Come la devo chiamare? Signora compagna, o compagna signora?», se veniva interrotto da qualche petulante agli accesi dibattiti sotto tendoni di una volta.
Lì accanto, in un altro “salone”, Anselm Kiefer, con tanti lastroni di piombo che avranno impegnato officine di allievi per dare questo look così “gibollato” e “sgarrupato”. Croste di terra e sabbia e ruggine in strisce orizzontali molto variegate e molto accostate. Davanti, una vecchia stufetta “Atanor” come nelle ricerche per la pietra filosofale, ma sopra cretti alla Burri. Di che cosa sarà  metafora?
Julian Schnabel, al Museo Correr, espone più maniere di quelle già  rimproverate a De Chirico. Tende e tovaglie appiccicate con detriti. Cocci e coccetti che formano ritratti. Bricchi e bricchetti, pezze, fessure, buchi, resine, gesso e biglie su carta catramata. Vecchie foto ingrandite e spente. Mappe antiche della Palestina. Civetterie mostrificate da caramelle e profumi cheap. Sacchi grezzi e usati…
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Qua e là , si legge: «All’interno di una logica universale, superamento delle limitazioni contingenti di spazio e tempo, senso illuminante carico di significato, tracciato temporale dell’esistenza… ».
Ma le antologie e collezioni sono spesso soddisfacenti. La Fondazione Prada espone i principali artisti dell’obbligo fra le gallerie internazionali – massi molto massicci al pianterreno – e tanti italiani carissimi per motivi generazionali e storici: Burri, Lo Savio, Manzoni, Fontana, Schifano, Castellani, Pascali… (di Pascali, non ho ritrovato neanche presso la Regione Puglia un’intervista televisiva Rai che gli feci sul suo modo di lavorare nell’atelier. Dunque, niente «Penelope» in lana di vetro o alluminio intrecciata). Ecco però qui le sue vasche blu, fra ninnoli Kitsch di ceramica e palloni e cartoons e oggettini veneziani quotidiani e interni di vecchi bar d’Oltreoceano. Proposte e progetti da ovviamente prestigiose istituzioni straniere. E alla Ca’ d’Oro, come alla Querini Stampalia, pittori contemporanei incautamente giustapposti a Mantegna o Carpaccio o Pietro Longhi, a illustri bronzetti padovani e mantovani.
In quel di Stampalia, patetici concertini “anni Cinquanta” per flauto e pianoforte con apparenti marcettine e ballabiletti che dissimulano ingenti difficoltà  di scritture tecnicamente peculiari e impegnative. Maderna, Rubin de Cervin, ornitologie di Messiaen su merle nere che si vedono anche a Villa Borghese ma non si odono mai cantare. Memorie di telefonate alla Trinité parigina ove settimanalmente Messiaen all’organo eseguiva degli pseudo-Morricone molto western. Abituati a St-Roch, ove Manzoni ebbe un celebre sturbo ma vi si paga il biglietto, ci si sentì rispondere da un sacrestano «mais Monsieur, c’est la Messe».
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Alla Dogana, «Tolleranza zero» e «Sciopero mondiale», secondo gli annunci. Laddove certe nonne ottocentesche sospiravano: «Ma non ci bastano già  i nostri sfasci? Anche quelli degli altri, adesso?». Mentre nelle recensioni reciproche fra dottorandi, «come ha puntualmente e acutamente rilevato, nel suo prezioso e penetrante volumetto». Ma secondo certi facili titoli, «Tutti pazzi per delle stronzate».
Ecco segmenti lucidi e multipli, lampadine sempre accese, salvagenti pop, mostri di filo metallico, o di gesso. Fioriere da arredo urbano, cucchiai lunghi un paio di metri, straccetti. Pseudo-cadaveri sotto lenzuoli, come dopo incidenti. Sale d’armi con mitra e pistole. Un’auto carbonizzata. Salottini di intimità  smancerosa. Inferriate. Portabottiglie. Materassini, monocromi, vassoietti di frutta finta. Non per appartamenti, una camicia da notte démodée appesa, un cuore rosso gigante con nastri dorati e vista di yachts in rada. Lì davanti, a San Giorgio, accanto al grazioso giardinetto per Borges, con altezze infantili per le siepine, dentro la grande chiesa del Palladio è fermo un potente soffione descritto come «bufera su».
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Dopo tutto, la mostra più mirata e struggente (avendoli conosciuti quasi tutti) riguarda Ileana Sonnabend e le sue passioni italiane, alla Collezione Peggy Guggenheim. Una o due generazioni fa: Rauschenberg, Lewitt, Twombly, Fontana, Oldenburg, Schifano, Kounellis, Festa, Rotella, Manzoni, Pistoletto, Paolini, Ontani, Hockney… E i grandi collezionisti: Panza di Biumo, Agrati, i Codognato… Ma soprattutto i magnifici ritratti di lei, ad opera di Andy Warhol. Torna in mente proprio Ileana, che emergeva dal suo studio in West Broadway per il gusto di tirarci dentro ad ammirare un suo inedito tesoro. Allo stesso indirizzo, invece, l’ex-coniuge Leo Castelli preferiva invitare a una trattoria italiana lì accanto dove (lui, triestino) amava soprattutto le paste con l’aglio.
Ma che stanchezze, adesso.


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