Uccidere un rom e contare sull’impunità 

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Che cosa può dirci sugli zingari una manciata di carte processuali del tardo ‘500 veneto? Benedetto Fassanelli propone questa domanda in apertura di un libro che è un invito a sciogliere nel tempo storico la rigidezza di una identità  collettiva continuamente riproposta nelle cronache delle paure e delle aggressività  sociali del presente (Vite al bando. Storie di “cingari” nella terraferma veneta alla fine del Cinquecento, Edizioni di Storia e Letteratura, euro 36). Nello stesso tempo insinua nel lettore il dubbio che la domanda principale sia in realtà  un’altra: c’è qualcosa che lo stereotipo dello zingaro può insegnarci non sullo zingaro ma su di noi e su tutti coloro che prima di noi hanno via via costruito quello stereotipo e ce lo hanno trasmesso?
Da queste domande è nato un libro vivo, talvolta debordante, dove l’autore torna ripetutamente sui suoi passi e legge e rilegge le fonti chiamando in aiuto non solo i risultati di una ricerca storica e antropologica sui rom oggi decisamente in crescita ma anche e soprattutto le discussioni recenti su identità  e rappresentazione. Un libro per certi aspetti felicemente giovanile proprio perché inquieto e irrisolto, scritto sullo sfondo duplice di un presente invaso dai profili a due dimensioni delle certezze identitarie e di un passato che fu il momento genetico di procedimenti di esclusione e di separazione ancora funzionanti.
La storia della presenza rom in Europa occidentale dove si affacciarono all’inizio del secolo XV si iscrisse fin da subito sotto quel segno. La febbre dell’intolleranza nei loro confronti raggiunse livelli perfino più elevati di quelli toccati in sorte agli ebrei. Una delibera del Senato veneziano del 1558 ne decise l’espulsione dai territori dello Stato garantendo un premio a chi li denunziava e l’impunità  a chi li ammazzava.
Decisione apparentemente durissima, in realtà  inapplicata, come accadeva spesso con le “gride” dei poteri statali del tempo. Nella realtà  documentata dai processi criminali del tardo ‘500 ci fu una diffusa presenza nella terraferma veneta di “cingani” o “cingari” impegnati a guadagnarsi da vivere col commercio di cavalli o come “bravi” dei signorotti (gli uomini) e con la chiromanzia e la “buona ventura” (le donne). Ma proprio allora, intorno alle loro origini e alla loro natura si cuciva una identità  negativa elaborata da testi letterari, storici, giuridici, teologici della “nostra” tradizione: e si formava così uno stereotipo, primo passo nel processo di invenzione delle razze. Si pensi che è a una commedia (La zingana, di Gigio Artemio Giancarli) che si deve probabilmente l’origine del mito della zingara rapitrice di bambini.
Così, in conclusione, alla domanda di chi siano gli zingari si sostituisce l’altra domanda speculare: come e perché sia stato costruito lo stereotipo e che cosa ci sia dietro quella maschera disegnata da uno sguardo ostile. Ma qui la risposta manca. I “cingari”, la loro cultura, la loro capacità  di resistere a un contesto che per secoli ha tentato tutti i mezzi per assorbirli e cancellarne l’alterità , richiedono per essere compresi uno sguardo estraniato sulla “nostra” identità  e sul bisogno di costruirla inventandoci di volta in volta presenze nemiche. Il libro si rifiuta di tranquillizzare il lettore. E in questo sta forse il suo merito maggiore.


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