Usa e Ue: i default non sono uguali

by Sergio Segio | 30 Luglio 2011 6:26

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Il debito pubblico americano, 14.400 miliardi, è quasi il 100% del Pil; in Spagna è il 68%. Il disavanzo, 11% nel 2011 e 7,5% nel 2012, è a livelli da Grecia. E come in Grecia c’è il rischio che il governo non sia in grado di onorare i propri debiti. Eppure il mercato si accontenta del 2,8% per i T Bond americani a 10 anni (e dello 0,11% per i T Bills a 3 mesi), contro il 6% in media per Btp e Bonos e il 14% per i titoli greci.
E il governo USA, per ora, mantiene la sua AAA, mentre nell’Eurozona fioccano i declassamenti. È la dimostrazione di un attacco della finanza anglosassone al mai amato Euro? No. È il segno delle profonde diversità  tra le crisi del debito nell’Eurozona e quella americana. C’è default e default. Negli Usa la legge di bilancio, che pone un tetto in valore assoluto alle autorizzazioni di spesa del Governo, viene utilizzata strumentalmente dal Congresso repubblicano per imporre un taglio delle spese e costringere Obama a smantellare i programmi sociali che invece lui vorrebbe finanziare con maggiori tasse; così da indebolirlo in vista delle elezioni del 2012. In gioco c’è anche il ruolo dello Stato nell’economia: i democratici vogliono espanderlo, i repubblicani ridurlo. Ma nessuno crede che i repubblicani siano politicamente così stupidi da volere un lungo blocco dell’attività  del Governo per meri scopi di potere; e infatti, il mercato sconta, al massimo, temporanee difficoltà  nei finanziamenti pronto/termine a breve (dove i TBills sono usati come garanzia).
Chi investe nel debito pubblico guarda alla volontà , capacità  e credibilità  di un paese di adottare e mantenere politiche fiscali in grado di riportare il debito a livelli sostenibili. Sotto questo aspetto, Usa e paesi dell’Eurozona sono in situazioni molto diverse. Repubblicani e democratici non discutono su dimensione e/o costo dell’austerità  fiscale necessaria a ridurre il debito, ma su come farlo: più tasse o meno spese? Ma nessuno mette in discussione la priorità  di risanare i conti. Inoltre, i livelli di spesa e di tassazione federale sono la metà  di quelli europei, rendendo più facile qualsiasi manovra fiscale. La crescita potenziale americana, stimata al 3%, è quasi il triplo che in Italia, Spagna o Grecia. E l’economia, molto più flessibile è in grado di assorbire le politiche di bilancio senza i nostri costi sociali.
Il debito Usa è anche calcolato in modo diverso: poiché i contributi versati eccedono la spesa corrente per pensioni e sanità , il surplus viene accantonato presso il Tesoro e contabilizzato come debito pubblico, anche se è verso altri enti governativi. Ci sono quindi 4600 miliardi che non sono rappresentati da titoli sul mercato e che andrebbe tolti dal computo, per renderlo omogeneo all’Eurozona. Così il debito scenderebbe a 9800 miliardi: il 65% del Pil. Di questi, quasi la metà  sono detenuti all’estero (2100 da Cina e Giappone): la proporzione è la stessa dell’Italia, ma il nostro governo, e gli altri dell’Eurozona, non emettono debito in una moneta di cui controllano il valore. Così gli USA potrebbero ricorrere alla svalutazione del dollaro per alleggerire l’onere dell’aggiustamento fiscale. La Cina potrà  pure minacciare di disertare i titoli americani in futuro; ma per quelli accumulati finora, non può farci niente. Per conferma, chiedere ai giapponesi. A differenza dell’Eurozona, gli USA potrebbero usare anche l’inflazione per ridurre il debito domestico: il rimedio più antico del mondo. I rendimenti richiesti dagli investitori salirebbero, ma proteggerebbero dall’erosione di valore solo i nuovi titoli emessi, non lo stock esistente. Un’inflazione media al 4,5%, rispetto al 2% implicito nei tassi attuali, ridurrebbe l’onere del debito del 20% in 10 anni. Dollaro stabile e tassi sui TBonds ai minimi storici segnalano che gli investitori, non solo americani, non si preoccupano dei default tecnici, e non dubitano che la finanza pubblica americana possa essere rimessa in carreggiata. E indicano la preoccupazione per un futuro di bassa crescita e austerità  fiscale, piuttosto che di inflazione e svalutazioni. Un crisi del debito, dunque, diversa dall’Eurozona. Da non leggere con la lente della politica nostrana, come invece siamo soliti fare.

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