by Sergio Segio | 12 Luglio 2011 6:32
Come in passato, dobbiamo risanare i conti per «restare in Europa» , per non perdere un’insostituibile ancora di stabilità e sicurezza. A chi ricomincia ad aver dubbi sull’euro e si chiede se non staremmo meglio da soli, bisogna rispondere che la sfida è esattamente di segno opposto: varare subito una manovra credibile ed efficace, in un clima di coesione nazionale (l’appello di Napolitano) ma anche nel quadro di un progetto di «risanamento per la crescita» capace di condurci nel cuore virtuoso dell’Ue e di metterci così al riparo da crisi future.
Negli anni Novanta l’entrata nell’euro ci costò molto cara. Fra il 1991 e il 1997 furono varate leggi finanziarie da 54.000 miliardi di vecchie lire all’anno (26 miliardi di euro). Quella di Amato, nel 1992, raggiunse il picco di 50 miliardi; quella di Prodi nel 1996 fu di quasi 35 miliardi, inclusi 6 miliardi di «tassa per l’Europa» . Fu grazie a questi sforzi imponenti che entrammo nell’euro zona e abbiamo potuto in seguito beneficiare del suo cordone protettivo durante due crisi finanziarie epocali (2001 e 2008). A chi si domanda oggi se ne sia valsa la pena, basta ricordare un dato. Nel 1996 la spesa per interessi sul debito assorbiva l’ 11,5%del Pil, gli stessi valori del 1991, nonostante cinque manovre lacrime e sangue.
Nel 2002, l’anno in cui l’euro entrò effettivamente in circolazione, questa voce era scesa di ben cinque punti. Oggi è attestata intorno al 5%. Si tratta sempre di valori doppi rispetto alla media Ue. Ma non ci vuol tanto a immaginare cosa sarebbe successo se avessimo dovuto tenerci la vecchia lira. Perché i mercati non si fidano ancora di noi? In parte per l’annosa e irrisolta questione del debito. Il nuovo problema è però la crescita. Gli investitori internazionali lo hanno detto chiaramente: senza crescita il debito non può essere riassorbito, dunque niente fiducia all’Italia. A differenza degli anni Novanta, questa volta non basta una manovra difensiva: occorrono forti segnali proattivi anche sul fronte della crescita. Molte buone idee su come far ripartire subito l’economia sono già state avanzate: liberalizzazioni, riduzione del cuneo fiscale, sostegno all’export e così via. Vi è però un fronte strategico, cruciale per il medio periodo, su cui si deve incidere non solo per fare cassa, ma proprio per favorire lo sviluppo: la composizione della spesa pubblica.
Nell’ultimo decennio l’imponente calo degli interessi sul debito (il dividendo dell’euro) è stato quasi interamente assorbito da sanità e protezione sociale. Nulla è andato a istruzione e ricerca, per le quali spendiamo fra uno e due punti di Pil in meno dei Paesi virtuosi. A peggiorare le cose sta il fatto che il nostro welfare non fa «investimenti sociali» : asili, formazione, inserimento al lavoro, sostegni all’occupazione giovanile e femminile, casa, famiglia, lotta all’esclusione, invecchiamento attivo. Per queste voci siamo sotto di quattro o cinque punti rispetto alla media Ue. È almeno un decennio che parliamo di rimodulare il welfare, ma in realtà ci siamo limitati a una manutenzione dell’esistente.
La politica italiana non sembra capace di fare di più. C’è modo di uscire dal vicolo cieco? In altri Paesi le scelte strategiche della politica economica e sociale sono definite dai governi in collaborazione con organismi indipendenti che poi valutano attuazione e risultati. Spesso queste scelte vengono recepite da accordi quadro fra maggioranza e opposizione. Perché non pensare ad una soluzione analoga anche per il nostro Paese? L’obiettivo condiviso potrebbe essere quello di allineare in dieci anni la composizione della spesa italiana agli standard medi europei. Rimodulando le prestazioni esistenti anche in base a regole automatiche: ad esempio, ciò che si risparmia sulle pensioni (al netto di questa manovra) va interamente stornato verso rischi e bisogni oggi scoperti.
L’Olanda ha sperimentato un meccanismo simile negli anni Ottanta ed è oggi uno dei Paesi virtuosi. Quale potrebbe essere il profilo di una nuova «autorità » a promozione e tutela degli investimenti sociali e della crescita inclusiva? Sul nome e le funzioni, c’è tempo per discutere. Per ora, mi limito a fare due proposte: presidente donna e componenti tutti rigorosamente al di sotto dei 40 anni.
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