Una strage in cerca d’autore La nuova destra scandinava

by Sergio Segio | 26 Luglio 2011 8:18

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Certo l’assenza di attentati nelle altre capitali scandinave non è prova dell’efficienza delle loro polizie e dei loro servizi segreti, che se non condividono le idee dei neonazisti danno però prova di una singolare pigrizia nel combatterli. Breivik, come Timothy McVeigh ad Oklahoma City e come Jared Loughner a Tucson in Arizona, non ha fatto che prendere sul serio la retorica dei politici, le analisi dei giornalisti, le riflessioni degli intellettuali che da decenni, e in particolare dall’11 settembre 2001, proclamano che l’islam è il «nemico». È il linguaggio dell’estrema destra (pudicamente definita «conservatori») che percola verso il basso della scala sociale, trasmesso dai capitan Fracassa dei talk show: Daniela Santanché o Mario Borghezio in Italia, Glenn Beck o Rush Limbaugh negli Stati Uniti. Non occorre fare appello ai luminari della sociologia per capire come ciò accada: il linguaggio della destra, in tutto il mondo, è diventato fascistoide almeno dal 1980, con l’elezione di Ronald Reagan, che parlava volentieri di «impero del Male», di «giorno del Giudizio» e di «scontro finale». I progressisti erano il «nemico» mentre la prospettiva di una guerra (allora contro l’Unione Sovietica, più tardi contro l’Iraq o l’Afghanistan) doveva essere accettata come parte della vita quotidiana. Questo scivolamento semantico si nutriva della timidezza e del disorientamento dei democratici americani e dei socialdemocratici europei, incapaci di ritrovare un linguaggio coerente e un’idea di società  giusta dopo il 1989. Il risultato erano i successi della Fox negli Stati Uniti, dei tabloid di Murdoch in Gran Bretagna, di Libero e del Giornale (in versione Feltri) in Italia. Quello che (..) ha definito «linguaggi totalitari» è lentamente diventato normale, estendendosi come una metastasi a a tutti i media: oggi qualsiasi rissa da bar diventa il «Far West», ogni molestia uno «stupro» e ogni visita di un ministro impone di accettare la «città  blindata». Naturalmente, i politici come George W. Bush o Silvio Berlusconi si sono sempre ben guardati dal trarre le conseguenze dei loro discorsi e, al contrario, hanno regolarmente invitato i cittadini a continuare nelle loro abitudini di shopping, di vacanza, di intrattenimento. La guerra diventava così uno spettacolo televisivo, un reality show girato in località  esotiche, una condizione perfettamente accettabile in quanto non richiedeva alcun sacrificio all’uomo della strada e gli permetteva invece di sfogare il proprio risentimento contro i gruppi additati come responsabili delle miserie quotidiane, in particolare gli immigrati. Negli anfratti di una società  sempre più inquieta, tuttavia, rimangono parecchie persone che credono a ciò che sentono o a ciò che leggono, che trasformano le loro esperienze in aggressività  e che vedono nel nemico islamico un’occasione per dare un senso alla propria vita. Sono giovani dall’esistenza marginale, quasi sempre più interessati alla birra e alle motociclette che alle manifestazioni politiche, ma trovano nelle svastiche, nelle teorie del complotto, nel culto delle armi da fuoco una ragione di vita. Del resto, la violenza politica contro i «traditori» si era già  manifestata nel 1986, quando fu ucciso il primo ministro svedese Olof Palme, e nel 1995, quando il primo ministro laburista israeliano Yitzhak Rabin fu assassinato da un giovane di estrema destra. Gli autori di stragi come McVeigh, Loughner e Breivik, non sono pazzi nel senso clinico del termine, come dimostrano le loro capacità  di pianificazione e l’efficienza nell’esecuzione dei loro piani. Sono dei compagni di strada dei politici che siedono nei parlamenti e nei governi, pronti a chiedere l’espulsione di tutti gli immigrati per poi fingere orrore e piangere lacrime di coccodrillo quando l’inevitabile accade. Breivik non aveva come obiettivo nulla di diverso da ciò che la English Defense League, il partito True Finns, o la Lega Nord chiedono ogni giorno: la fine di una pretesa società  «multiculturale» (che in realtà  non esiste affatto) e il ritorno all’omogeneità  culturale e razziale di 40 anni fa. L’unica differenza è che lui ha deciso di agire. Occorre sottolineare che il giovane norvegese, esattamente come Jared Loughner che l’8 gennaio scorso sparò alla deputata Gabrielle Giffords o McVeigh che fece saltare in aria un palazzo di uffici federali nel 1995, scelgono di attaccare i loro governi. Invece di arruolarsi per andare a combattere in Afghanistan, rivolgono la loro violenza contro i simboli politici del loro stesso Paese: perché? La risposta è che, prendendo sul serio la retorica delle crociate, si ribellano contro la passività  e l’inettitudine dei governi che le predicano. Vogliono compiere azioni spettacolari che «risveglino» i cittadini e li spingano a mobilitarsi, a riprendere nelle loro mani un potere politico loro sottratto da élite cosmopolite e asservite alle banche. Breivik odiava in particolare i «traditori», come i giornalisti o gli aspiranti politici dei partiti di governo: il suo bersaglio sull’isola di Utoya. Ma il risentimento nei confronti di una finanza internazionale impazzita, che tratta i governi come le proprie donne delle pulizie, è tutt’altro che confinato ai gruppi di skinhead o di neonazisti: tutti i partiti xenofobi europei hanno avuto performance elettorali spettacolari negli ultimi anni e Marine Le Pen, candidata per il più antico di loro, il Front National, alle presidenziali francesi del 2012, spera di arrivare al secondo turno superando il candidato socialista o addirittura l’impopolare presidente Sarkozy. Questo è il motivo per cui l’attentato di venerdì era perfettamente prevedibile, un crimine che attendeva solo il suo autore per realizzarsi.

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