Una giornata di un anno da cani
Non va. Lo scontro politico tra democratici e repubblicani Usa su come innalzare il tetto del debito pubblico ha guadagnato di prepotenza il centro della scena, ma impedisce di vedere che il vero problema è una probabile ricaduta nella recessione globale. Il Beige Book reso noto ieri sera dalla Fed, nonostante il linguaggio cauto che la caratterizza, non lascia incertezze: «l’economia è rallentata in 8 dei 12 distretti» in cui è divisa la sua competenza.
Tutti si affannano a seguire le parole dei duellanti o gli indici azionari (anche ieri andati malissimo, specie in Italia), lo spread tra i titoli sicuri e quelli considerati rischiosi (i Btp italiani sono tornati sopra i 300 punti rispetto al Bund tedesco). Ma intanto l’economia Usa si sta fermando, con ovvie ripercussioni globali, visto che rappresenta il 25% del Pil mondiale. La conferma è arriva, imprevista, proprio ieri. Gli ordini di beni durevoli, nel mese di giugno, sono calati del 2,1%, mentre gli analisti puntavano su una crescita dello 0,3; modesta, ma crescita.
La rischiosa telenovela del debito ieri è passata anche al vaglio del Cbo (Congressional Budget Office, organismo indipendente incaricato di fornire analisi economiche ai parlamentari. Il piano del democratico Harry Reid, che doveva tagliare 2.700 miliardi di dollari di spesa, è risultato adeguato a segarne solo 2.200. Quello del repubblicano Boehmer – «tarato» per 1.200 – ne copriva solo 850 milioni. Bocciati entrambi. Ma resta la divisione principale: sui tempi, l’Old Grand Party vorrebbe un piano in due tempi, leggerissimo ora e durissimo l’anno prossimo (in piena campagna elettorale per le presidenziali), i democratici vorrebbero cavarsi subito il dente. Sul modo di realizzare i risparmi, invece, i primi vogliono solo tagli alla spesa, mentre Obama ci vedrebbe bene anche un piccolo contributo dalle tasse dei più ricchi. Anatema! Ma intanto 15 repubblicani hanno deciso di votare contro il «proprio» piano, di Boehner.
Nel frattempo, gli analisti si esercitano con le ipotesi. Il rating sul debito pubblico Usa – il primo della storia – si tradurrebbe in «miliardi di dollari in più per il governo per gli interessi sul debito, miliardi di dollari in più per consumatori, aziende, stati e comuni per ottenere credito. E un’erosione della fiducia di consumatori e aziende che rallenterebbe ulteriormente economia e creazione di posti di lavoro». L’impensabile default (fallimento), invece, avrebbe un impatto così «catastrofico» da far prevedere un accordo all’ultimo secondo utile per evitarlo (a questo punto nella notte di sabato, a mercati chiusi in tutto il mondo, per dar loro tempo di «metabolizzare» il compromesso, qualunque esso sia).
Sarà , ma intanto le grandi aziende Usa si vanno preparando allo scenario peggiore: «la nostra maggiore protezione contro questo rischio è avere molta liquidità ». Ovvero rinviare investimenti ed assunzioni. Un effetto «recessivo», quindi, è già in atto.
Il Wall Street Journal (galassia Murdoch, ergo «repubblicano») sostiene invece da un paio di giorni un’analisi di Barclays secondo cui, in fondo, il termine del 2 agosto «non sarebbe tassativo», perché il tesoro Usa disporrebbe di altre entrate sufficienti a farlo slittare… di una settimana. Dal ministero di Tim Geithner la risposta è stata secca: «la scadenza è fissa». In questo clima Wall Street ha continua a nutrire una diffidente fiducia in un accordo sul debito, perdendo però tra l’1% (Dow Jones) e il 2 (Nasdaq).
Per l’Italia (-2,86%) e l’Europa è andata peggio. Tutto il continente sembra percorso da giganteschi Tafazzi. Ieri il Financial Times ha spulciato l’esposizione di Deutsche Bank rispetto al debito pubblico italiano, e ha scoperto che in soli sei mesi la banca tedesca ha venduto l’88% dei titoli tricolori che aveva in cassaforte (oltre 8 miliardi). Insomma, ha contribuito non poco a svalutarele obbligazioni italiane, gonfiando così il famoso spread tra Btp decennali e corrispondente Bund germanico. Quando si nominano «i mercati» bisognerebbe ricordarsi che è questo tipo di soggetti che «fa» il mercato, decidendo chi mandare all’inferno e chi salvare (per ora…).
Un effetto indiretto si è avuto anche sull’asta dei Btp decennali che si è svolta ieri. La domanda è stata alta (il doppio rispetto all’offerta), ma l’interesse garantito come «rendimento» è salito sopra il 4% annuo. E anche questo peserà sui conti statali, mica solo la spesa sociale…
Sotto la «crisi del debito pubblico», quindi, si va combattendo anche una silenziosa battaglia per riscrivere le gerarchie interne alla zona euro. E non si tratta solo di una malevola illazione «da comunisti». Ieri il ministro delle finanze tedesco ha spiegato molto chiaramente che se «uno stato che ha problemi viene aiutato, a sua volta deve cedere una parte della propria sovranità all’Ue». Anche «accettando dure sanzioni, se non riescono a risanare le proprie finanze». Perché «l’integrazione deve procedere» e comunque una soluzione punitiva del genere è «certamente meglio che espellere dall’Eurozona i paesi che hanno un indebitamento elevato».
Qualsiasi integrazione sovranazionale, in effetti, si realizza «cedendo sovranità ». I problemi nascono quando – in Europa è prassi – questa «cessione» si realizza in modo extraistituzionale e fortemente asimmetrico. Ce la vedete la Germania (o la Francia) a «cedere» qualcosa? Non va.
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