by Sergio Segio | 15 Luglio 2011 7:16
«Non siamo preoccupati per l’impatto della manovra sui cittadini», assicurava Silvio Berlusconi un mese fa, il 16 giugno. E invece facendo un giro per Asl, poste e banche – luoghi ameni dove si forma il senso comune di milioni di persone – l’argomento del giorno era uno solo: i super-ticket. Nonostante la commissione del senato abbia licenziato la manovra soltanto alle 3.30 di mercoledì notte, i dettagli della finanziaria «più lacrime e sangue» della storia (70 miliardi contro i 46 di quella di Amato del 1992) erano già sviscerati in infinite file e capannelli. In poche ore, la notizia che da lunedì si pagano 10 euro in più per esami del sangue, visite mediche, etc., era unanimemente considerata come la più odiosa delle tasse. Inossidabilmente collegata – chissà perché – a un coro di insulti irripetibili sugli stipendi dei deputati e le ultime prebende della casta di faraoni che si è impossessata di stato e parastato. Non c’è mai stata distanza più grande tra la «coesione nazionale» dimostrata dal Palazzo e la vita reale di decine di milioni di “sudditi” inferociti e accaldati.
E questo non sarà che l’inizio. Secondo la Cgil la manovra costerà almeno 1.800 euro a famiglia. Il dipartimento economico di Corso d’Italia stima che le tasse aumenteranno molto di più di quanto ipotizzato dal governo. Il taglio lineare delle detrazioni fiscali (figli, lavoro, ristrutturazioni, etc.) del nel 2013 porteranno 8 miliardi di gettito invece dei 4 preventivati da Tremonti. E ben 32 a regime invece di 20. Un salasso, altro che «non metteremo le mani nelle tasche degli italiani e non taglieremo gli stipendi pubblici» come detto da Berlusconi l’8 luglio a Repubblica.
Il senato approva con 161 sì, 135 no e 3 astenuti una manovra che Bankitalia stima farà perdere almeno 2 punti di Pil. Oggi la camera farà altrettanto senza nemmeno fare finta di discutere: non ci sarà nessun emendamento né ordini del giorno (record mondiale). Il parlamento è muto. La manovra passerà in diretta tv addirittura in anticipo proprio per fare presto (e per far tornare in tempo a cena i deputati).
Tremonti, cosa rara, si è difeso di persona in senato. Tanto ragionieristiche le sue norme, tanto più alta la sua retorica: «La crisi finanziaria si aggira per il mondo come un mutante, che oggi appunto prende la forma della Grecia. (…) oggi abbiamo in Europa un appuntamento con il nostro destino. La salvezza non ci viene dalla finanza, può venire solo dalla politica; ma la politica non deve più fare errori. (…) È così che ora siamo arrivati insieme al dilemma e al dramma dell’euro e dell’Europa: o si va avanti o si va a fondo. La soluzione o è politica o non è; o è comune europea o non è, senza illusioni di salvezza per nessuno. Come sul Titanic, non si salvano neppure i passeggeri di prima classe». E poi il finale più da capo del governo che da semplice ministro: «Il Paese ci guarda: guarda il Governo, guarda la maggioranza e guarda l’opposizione, certamente diversi, ma oggi qui non troppo divisi. Per questo sono orgoglioso di essere qui oggi con tutti voi». Al termine degli applausi di circostanza Tremonti è solo, sempre più prigioniero delle sue manovre, un lugubre canto del cigno più che l’appello alla nazione di un Delfino.
Non a caso Berlusconi non ha più detto una parola. Nella sua ottica deformante, la finanziaria-monstre fin qui è tutta ascrivibile a Tremonti e al Quirinale, gli unici avversari veri che si trova di fronte a parte se stesso e il suo tramonto. Come interpreterà la fase successiva si capirà dal suo possibile intervento di oggi alla camera (il premier ha disertato i funerali del soldato Marchini e all’ultimo minuto ha anche annullato il viaggio a Belgrado).
Giorgio Napolitano invece è in visita di stato in Croazia. E quando gli riferiscono che la manovra è già alla camera si congratula: «E’ un miracolo. C’era un accordo serio ed è stato rispettato». Il capo dello stato è sicuro che della «coesione» dimostrata questa volta ci sarà bisogno anche in futuro, quando bisognerà «stimolare la ripresa soprattutto attraverso più competizione».
Ma non sono tutte rose e fiori, anzi. Qualche preoccupazione affiora anche sugli uffici del Colle, che di fronte a interpretazioni che considerano il nuovo appello all’unità nazionale come un via libera a un governo tecnico o del presidente, spingono di nuovo Napolitano davanti ai giornalisti per dire che «parlare di toto-ministri è da irresponsabili». Il presidente fa per andarsene e poi torna indietro: «Io – sottolinea – non ho ricevuto alcuna proposta dal presidente del consiglio e addirittura vedo tirato in ballo per un altro incarico di governo (alla Giustizia, ndr), il ministro degli Esteri che mi accompagna in questa missione. Ciò è veramente da irresponsabili – ripete – chiunque metta in giro queste voci».
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