Ugo Gregoretti: “Alla RAI ero un raccomandato, ma il nostro Gattopardo umiliò la BBC”
A ottantuno anni Ugo Gregoretti non ha smesso di recitare. È appena salito sulla scena del festival di Spoleto, portandosi appresso la gigantografia del bisnonno eroe del Risorgimento. Ma un teatrino più famigliare continua nella splendida casa di via delle Coppelle, mentre rievoca il primo incontro a Napoli con il comandante Lauro, che lo fece entrare nella redazione monarco-fascista di Patria: «E mo’ vattenne a casa, guagliò, ch’aggia a parlà co’ pà teto ‘e ‘sti cazzi e tramme» (il padre di Gregoretti era presidente dell’Azienda tranviaria municipale). O quando ricorda la visita del compagno Marchesi, che voleva consegnargli la tessera del Pci dopo il successo dei suoi film sulle lotte operaie («Non posso», obietta il regista. «Sono fatuo, vanesio, maniaco dell’eleganza. Possiedo duecento cravatte e non intendo rinunciarvi». «Aragon ne ha quattrocento. E un centinaio di foulard». «Vabbè, damme ‘sta tessera»). Figura poliedrica come pochi altri in Italia, regista di cinema e di opere liriche, inventore di un nuovo genere televisivo, direttore di teatri e di festival, attore e scrittore (una sua divertentissima autobiografia, Finale aperto, è stata pubblicata qualche anno fa da Aliberti). Esordì in Rai nei tempi preistorici di Mike Bongiorno. E da una celebre battuta di Lascia e raddoppia trasse ispirazione per Controfagotto, la storica rubrica che tanto gli somiglia.
Gregoretti, che ci è andato a fare a Spoleto con la fotografia a figura intera dell’avo combattente?
«Renato Nicolini ha messo in scena canzoni, poesie e cronache risorgimentali. Io ho avuto un ruolo in qualità di pronipote d’uno di quei giovani che dal Nord scesero a Roma per difenderla. I settentrionali d’allora avevano un’adorazione per i romani antichi, una sorta di retaggio del classicismo settecentesco. Pensi oggi a Bossi».
Lei è stato una delle prime vittime della Lega.
«Ero direttore del Teatro Stabile di Torino quando nell’87 affidai Le miserie di Monsù Travet, una commedia di Bersezio scritta in un dialetto piemontese ottocentesco, a due bravissimi attori dell’alto Lazio o giù di lì come Paolo Bonacelli e Micaela Esdra. L’idea non piacque all’attore Gipo Farassino, leader della nascente Lega Piemont. La sera della prima occuparono alla chetichella tutti i palchi del quarto ordine. Lo spettacolo fu interrotto ventidue volte».
Arrivò anche la polizia.
«Io vedevo la gioia dei poliziotti – tutti “terroni” – nel poter menare quegli esagitati del Moviment Piemontèis. A un certo punto fui aggredito da una leghista pazza. A una sua pausa per prendere fiato, ne approfittai: “Ma stia zitta brutta stronza”. “Aaah, agenti”, fece lei, come se fossimo a Scotland Yard. “Sentite che mi ha detto”. “Che le ha detto, Dottò?”, chiese il poliziotto. Bastò quell’inflessione per far nascere un’intesa tra me e l’agente. “Ma figuriamoci, un signore come il dottor Gregoretti…”. Non fui arrestato».
Lei è sempre stato un Giamburrasca. In Rai la guardavano con sospetto.
«Ero stravagante, anche nel modo di vestire. Sandali capresi, sembravo pronto per la Canzone del mare, non per una redazione. “Ah Gregoré, ma ndò vai?”, mi diceva il capo degli uscieri. Fui assunto a 23 anni, alla fine del 1953, per raccomandazione. Mio padre aveva amicizie influenti, tra cui il direttore generale dell’Iri. “Non farmi fare una brutta figura”, mi disse l’ingegner Ferrari. Sette anni dopo vinsi il Prix Italia con il documentario La Sicilia del Gattopardo. “Come vede, non le ho fatto fare una brutta figura”».
Un premio prestigioso.
«Sì, vincevano sempre gli inglesi, ma quella volta fottemmo la Bbc. Venne a vederlo in Rai anche Luchino Visconti, in compagnia di Suso Cecchi. Io stavo come la rana di Esopo, sul punto di scoppiare…».
…di vanità …
«No, di gioia per l’invidia che vedevo esplicitamente dipinta sul volto dei miei colleghi. Visconti rimase colpito dalla sala da ballo di Palazzo Gangi: è quella dove avrebbe ambientato la celebre scena tra Angelica e il principe di Salina. Praticamente gli feci fare un sopralluogo in poltrona. Nessuno ci aveva mai messo piede prima di me».
E lei come ci riuscì?
«Esercitandomi nei baciamano con Gaetanina Gangi e bevendo un terribile rosolio della principessa di Lampedusa, che deteneva i diritti morali. Mi aveva aiutato anche la famiglia di mia moglie, Fausta Capece Minutolo, di antica nobiltà napoletana».
Funzionò anche con Totò.
«Di quella volta mi vergogno un po’».
Racconti.
«Dopo il successo del Gattopardo e del Controfagotto mi si aprirono le porte del cinema. Così fui spedito dal produttore del film Le belle famiglie a casa di Totò, che però aveva già detto di no. Era l’ultimo tentativo. Ci sedemmo vicini e prendemmo a parlare del tempo. Fu lì che mi venne l’idea miserabile. “Eh, anche mia moglie la Duchessa patisce tanto la calura”. “Cosa avete detto? Favorite ripetere…”. Totò portava sulle spalle il gravame della sua aristocraticità tardivamente riconosciuta. “Ma allora siamo tra persone per bene”. E fece il film».
Lei ha lavorato anche con Pasolini.
«Più precisamente: girai I nuovi Angeli, un film-inchiesta sulla gioventù dell’epoca, immediatamente dopo Accattone. Avevamo lo stesso produttore, Alfredo Bini, e lo stesso operatore, Tonino Delli Colli. Allora, complessatissimo, chiedevo in continuazione: “Ma Pasolini…”. “Lassalo perde’, nun ce pensà “, mi diceva Tonino. Una mattina all’alba andammo a fare un sopralluogo in una grande distesa erbosa che era un pascolo di vacche. Un sottile velo di nebbia rendeva la scena molto suggestiva. “Scusa, un’ultima curiosità su Pasolini…”. “Daje”. “Ma se lui fosse arrivato davanti a questo splendore, dove avrebbe messo la macchina da presa?”. “Avremmo fatto il giro del campo e ‘ndove avesse visto la cagata più grossa… ‘macchina qui!’ “. Tonino anticipava la coprofagia di Sodoma e Gomorra».
Ma in Rai lei non si divertiva abbastanza?
«Sognavo il cinema. E la Rai era un’azienda becera. Negli anni Cinquanta il controllo occhiutissimo dei partiti al potere era come il tallone di ferro di Jack London. A noi dei servizi giornalistici veniva chiesto di magnificare le opere del governo. Io ero la persona meno adatta. Una volta feci saltare in aria una Chiesa».
Com’è possibile?
«Fui inviato a fare un servizio sul recupero di un’area del salernitano. Il progetto prevedeva anche la demolizione d’una chiesa, costruita nel letto d’un fiume. Da Napoli mi avrebbero mandato ben due macchine da presa, manco fossi Cecil B. DeMille. Ero sovreccitato. Quando seppi che la chiesa non sarebbe più saltata in aria, ci rimasi malissimo. Egualmente ci rimase male l’appaltatore di tutta la ricostruzione del luogo. Così una notte sistemammo ben cento fornelli di esplosivo. Uno scoop spettacolare. Ma il giorno dopo saltò anche il prefetto di Salerno. E io fui messo in quarantena».
Lei faceva recitare i suoi intervistati.
«Sì, praticavo un genere anfibio tra cinema e televisione. Un maestro era stato Vittorio Veltroni, che ci aveva insegnato l’importanza del sonoro: via quel vecchio trombone dello speaker, fai parlare il più possibile le persone. Per il resto facevo tutto da solo».
Inventò il documentarismo televisivo.
«Non fui il solo. Qui intervenne il colpo di genio di Guala, il direttore generale che veniva sbeffeggiato perché allungava le gonne alle ballerine. Appena arrivato, nel 1954, si rese conto che l’azienda era un covo di mediocri, quasi irredimibile. Così con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Gianni Vattimo. Furio Colombo. Folco Portinari. E in questo modo cambiò il sangue dell’azienda».
Oggi guarda la Tv? Le provoca orticaria, disperazione?
«Non la guardavo neppure allora. Però farei una riflessione controcorrente: la libertà di idee che c’è oggi a quei tempi era fantapolitica. Un Santoro che manda a quel paese il direttore generale…».
Libertà mica tanto.
«Certo oggi si legge di Rainvest e delle trame della signora Bergamini, tutto ciò è scandaloso. Ma il clima complessivo non è paragonabile a quello di allora. C’è però una cosa che l’azienda aveva e non ha più: la qualità . I vertici volevano che imparassimo a fare bene le cose. E quindi le facevamo bene. Oggi la qualità non la richiede più nessuno, in Rai e altrove. Anche perché non c’è nessuno che te la sappia insegnare».
Continua a litigare con sua moglie per i funerali?
«Sì, ogni tanto vi si accenna. Fausta è fissata con Sant’Agostino, mentre i funerali dei registi a Roma si fanno nella Chiesa degli artisti in Piazza del Popolo. Figurati se Scola o Benigni sanno dov’è Sant’Agostino, e poi ci vuole il permesso per accedervi in auto. Lei obietta che possono venire in taxi. Mah, temo che sarà un flop».
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