Tank, strade deserte e barricate nel nord Kosovo dove torna l’odio
SOKOLICA (NORD KOSOVO) – «Mir es erdhet», benvenuti. Non bisogna allontanarsi di molto perché il beneaugurante striscione che svolazza all’ingresso di Mitrovica sia clamorosamente smentito. Appena qualche chilometro più a nord del ponte sul fiume Ibar, un bianco Suv della polizia kosovara è messo di traverso sulla strada che porta a Jarinje, il posto di frontiera «uno» tra Kosovo e Serbia assaltato e incendiato 24 ore prima da un commando di ultranazionalisti serbi. «Se volete proseguire – avverte senza enfasi il sergente Semsi Osmani che comanda il drappello – non saremo certo noi a impedirvelo, ma ci tocca avvertirvi che con targa albanese rischiate che appena più su qualche cecchino vi spari addosso». Un bel salto indietro nel tempo, dunque. Quello in cui in queste lande di nessuno, né soldati né poliziotti, era in grado di garantire la sicurezza di chi vi si avventurava. Benvenuti, dunque, nel nord Kosovo da ieri notte immerso in un innaturale silenzio e praticamente off limits per mezzi che non siano militari. E soprattutto in quel perimetro di piccolo villaggi, come Szvecan, Leposaviqi, Zubin Potok, dove si combatte l’ultima sporca guerra tra i nemici di sempre, la guerra delle dogane. Meno cruenta per ora di quella del ‘99, ma non meno preoccupante per la comunità internazionale.
Il perché è presto detto: albanesi e serbi sembrano essersi cacciati in uno stallo dal quale sembra impossibile uscire. Hashim Thaci, il premier kosovaro legittimamente chiede di potere esercitare il proprio controllo su tutto il territorio del libero Kosovo. Concetto ribadito ieri ufficialmente con forza dal Parlamento di Pristina con un secco «indietro non si torna». Belgrado è ovviamente di altro avviso, visto che il nord Kosovo è a maggioranza serbo e non vuole proprio saperne di integrarsi. Boris Tadic, il presidente serbo, che pure bolla come «criminali» gli assalti dei giorni scorsi, non va più in là di uno scontato «bisogna tornare al dialogo». Nato e Unione europea sono dello stesso avviso. Ma sono solo parole che non sembrano portare acqua al mulino della soluzione del problema. La questione è infatti politica e non solo.
Nei due valichi di frontiera, quello di Jerinje (Uno) e quello di Brnjak (Trentuno) transitano ogni anno merci, soprattutto alimentari, per un valore stimato di circa mezzo miliardo di euro. Prodotti serbi a basso costo che inondano gli ipermercati del Kosovo, sui quali i serbi non pagano un euro di dazio e che mettono in ginocchio l’economia locale senza che vi sia reciprocità per le merci albanesi dirette a Belgrado o a Nis. Senza contare che accanto all’economia ufficiale attraverso quei posti di frontiera sui quali gli albanesi del Kosovo non esercitano alcun controllo, entra di tutto: armi, sigarette, droga.
In attesa che dal cilindro delle cancellerie occidentali esca uno straccio di possibile soluzione, la calma sembra tornata. Una calma apparente, imposta dalle forze militari della Kfor, che hanno messo sotto il proprio controllo i due valichi di frontiera nel mirino di gruppi serbo-kosovari, maggioritari nella regione. A innalzare nuovamente il livello di tensione nell’area era stata la decisione di Pristina, lunedì scorso, di dispiegare al confine le proprie forze di polizia per imporre l’embargo commerciale contro le merci serbe. Una decisione, presa in risposta all’analoga misura in vigore dal 2008 a Belgrado, che ha suscitato la collera dei serbo-kosovari, particolarmente colpiti a livello economico da questa misura. Ieri i militari della Nato hanno assunto il comando dei valichi di Jarinje, che mercoledì sera era stato dato alle fiamme, e di Brnjak.
I due posti di frontiera sono stati chiusi e al momento, hanno assicurato i responsabili della forza internazionale, la situazione «è generalmente calma, con alcune tensioni occasionali». Sempre ieri, infatti, gruppi di serbo-kosovari hanno bloccato le strade che portano ai due valichi, intenzionati a impedire ai poliziotti o ai doganieri di Pristina di installarsi nuovamente al posto di frontiera. Il governo kosovaro non sembra intenzionato a recedere dalla propria decisione. «Le misure di reciprocità con la Serbia – ha detto Thaci di fronte al Parlamento – verranno fatte rispettare in tutti i valichi di frontiera e dureranno fino a quando Belgrado non cambierà il proprio atteggiamento». L’assemblea ha quindi votato un documento che sostiene la politica del governo. Ieri a prendere posizione contro l’escalation di tensione, sono stati tra gli altri il presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek, il Consiglio Nord Atlantico della Nato e il premier della vicina Albania, Sali Berisha, che ha definito le violenze «atti criminali ispirati alla folle idea di Grande Serbia, sostenuti e finanziati da gruppi ultranazionalisti di Belgrado», mentre il Consiglio dell’Unione europea ha deciso di estendere il mandato del rappresentante speciale Ue in Kosovo, Fernando Gentilini, fino al 30 settembre. Ora si attendono gli esiti della seduta straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che discuterà a porte chiuse della situazione. Per intanto regna il silenzio: non un’auto, non un passante, il nord Kosovo sembra svuotato di uomini e cose. «Ma ci sono eccome – avverte il sergente Osmani – alle brutte in poco tempo sono in grado di mobilitarsi come è accaduto lunedì dopo la decisione di Tahci di mandare qui le forze speciali. In pochi minuti sono riusciti a mettere su un imponente blocco stradale con camion, tronchi d’albero e ogni genere di rottame».
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