by Sergio Segio | 2 Luglio 2011 16:36
NEW YORK. UN’ORRIBILE ingiustizia è stata commessa sotto il cielo di Manhattan. Ma da chi e contro chi? Delitto senza castigo, o castigo senza delitto che sia, la tragedia dello “Stupro di Ophelia”, che ha distrutto ingiustamente un uomo molto grande e ora distruggerà una donna molto piccola, resta.
Anche dopo la confessione dell’accusatore, l’ammissione di avere creduto a una teste non credibile.
È un enigma disegnato in quel pallido sorriso di sollievo di Dominque Strauss-Kahn colto all’uscita dal Tribunale che lo aveva resuscitato dopo averlo ucciso. Ma timido, come se ancora non credesse a queste settimane che deve avere vissuto in trance. Nessuno fra i cronisti di giudiziaria di New York pur avvezzi a ogni colpo di teatro, fra i giuristi e gli avvocati che da ore parlano ininterrottamente nei media avevano mai visto niente di simile. Una pubblica accusa, nella persona dell’ambiziosissimo e avventato Cyrus Vance jr, figlio di un gigante della politica e della diplomazia americana, che appena sei settimane dopo avere ottenuto da un Gran Giurì popolare l’incriminazione del più potente banchiere del mondo sulla base, disse, di «prove certe e inconfutabile», rinnega il proprio caso, demolisce la propria testimone e chiede – di fatto se ancora nella forma – di mandare all’aria il processo.
Anche chi ha faticato a provare simpatia per l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, un uomo che teneva fra le dita i destini finanziari di milioni di persone attraverso i cordoni del Fondo ma si concedeva cameriere d’albergo prima di scendere a colazione con la figlia, ha dovuto, nei due mesi del suo calvario, riconoscere la durezza con la quale la polizia di NY, la squadra Crimini Speciali (lo stupro) e il District Attorney, il procuratore capo Vance, lo hanno trattato. Ed è stato commendevole il suo atteggiamento ieri, dall’uscita dall’appartamento nel molto fashionable quartiere di Tribeca (50 mila dollari al mese) fino all’arrivo nell’aula del giudice. Mentre la sostituta procuratrice mandata avanti da Vance chiedeva al magistrato di annullare la cauzione, togliergli le manette elettroniche e restituirgli la libertà di movimento, ma soltanto all’interno degli Stati Uniti, però, dunque senza ridargli il passaporto, Dsk aveva l’aria di assistere al processo di un altro. Non all’ammissione di una colossale e disastrosa gaffe giudiziaria contro di sé.
Dsk, come ormai lo chiamavano tutti, nel perfetto completo da banchiere con cravatta blu non si è concesso e non ha concesso nulla allo spettacolo del quale, dalla sera del 24 maggio quando fu strappato al volo Air France già sulla pista del Kennedy e poi costretto al “perp walk”, alla passerella del criminale (presunto) in manette sotto flash e luci di telecamere, era diventato protagonista planetario. Aveva già dato abbastanza e non chiedeva né pietas né ovazioni, con il suo volto ironicamente impassibile.
La contrita procuratrice, una donna, scelta come spesso accade nei casi di violenza sessuale anche per il suo genere, era costretta ad ammettere che Ophelia, l’accusatrice, aveva mentito troppe volte sulle circostanze dell’attacco, sulla propria vita, sul proprio passato di vittima di stupri in Guinea, sui rapporti con una rete di spacciatori di droga e riciclatori di danaro che le versavano «a sua insaputa» 100 mila dollari sui conti correnti, era un teste che non avrebbe retto in un processo.
Strauss-Khan accettava la lieve pacca sulla spalla dell’avvocato difensore con un cenno di assenso, senza l’espressione di chi «ve l’aveva detto». Un vero signore. Rispondeva con uno sguardo d’intesa ad Anne Sinclair, la fedelissima e generosissima terza moglie che per la lieta occasione aveva abbandonato il nero completo dei giorni atroci per una giacca di cotone bianco e un filo di perle su un abito a tubino scuro. Si concedeva, all’uscita, una mano sulla spalla di lei, più cameratesco che coniugale. Il “perpetrator”, il violentatore accolto da cori di cameriere inviperite fuori dalle prime udienze, il carcerato rinchiuso nei “Piombi” newyorkesi di Ryker’s Island in solitaria di sorveglianza antisuicidio per tre notti fra i peggiori delinquenti, era tornato il signore della Francia più nobile e potente. Benevolo, almeno finora e in attesa di vedere se e quanti milioni di danni chiederà allo Stato e alla contea di New York della quale dipendono i procuratori, anche nell’ora delle rivincita e del riscatto.
Ma l’enigma resta. Se il caso giudiziario costruito da Cyrus Vance è collassato proprio per le indagini della Procura che «per legge, obbligatoriamente» sono state passate alla difesa, che cosa sia davvero accaduto nella stanza al 2808 del Sofitel di Manhattan rimane invischiato in una serie di elementi che l’avvocato della sempre anonima “Ophelia” ha elencato: un rapporto sessuale c’è stato e ha lasciato, secondo l’esame condotto all’ospedale due ore dopo il ricovero, abrasioni e contusioni nelle parti intime della donna. Un legamento della sua spalla è stato leso in quella occasione da una violenta caduta a terra e dovrà essere operato, dicono le risonanze magnetiche, sospetto di un rapporto molto più che appassionato. Segni del Dna di lui erano sparsi in molti punti della stanza, nei gesti rabbiosi che lei, secondo l’avvocato, aveva fatto per togliersi di dosso nauseata le tracce del rapporto. E anche nella telefonata all’amico in carcere, intercettata dalla magistratura, il giorno dopo, lei descrive uno stupro. Soltanto dopo lui, detenuto per possesso di 2 quintali di marijuana, le suggerisce come sfruttarlo finanziariamente.
Nulla di questo costituisce reato e troppi dubbi ci sono sulla trentenne della Guinea perché una giuria popolare possa superarli al momento del verdetto in un processo al quale, ormai sembra chiaro, non si arriverà mai. Eppure il vero enigma dentro il mistero classico del «lui dice, lei dice», dentro l’inevitabile demolizione della credibilità della vittima che è la tattica regina e purtroppo efficace in tutti i casi di violenze sessuali – che sono tali anche se compiuti sulla più piccola e ignobile delle donne – è ancora più profondo. E’ quella matassa di personalità , quello scontro di ambienti, diciamo pure di “classe” che la vicenda Dsk ha portato a galla, più da Gore Vidal e Tom Wolfe, che da John Grisham. Un viluppo che ha facilmente generato sospetti e dietrologia.
E’ stata la New York che conta, è il “generone” di Manhattan quello che per due mesi si è avvinghiato e accartocciato attorno a se stesso e al sovrano decaduto delle monete, tutti appesi alle parole di una «signor nessuna». I Vance, grande famiglia di enorme reputazione e ambizione. I Kahn-Sinclair, stelle della mondanità globale, lui soprattutto che, per lo stupore dei poliziotti di Harlem, la sera dell’arresto, in guardina, chiese non la solita, misericordiosa telefonata all’avvocato, ma un telefonino per chiamare Angela Merkel, la cancelliera tedesca «che mi aspetta» disse all’agente di turno. La procuratrice dell’accusa, che è risultata essere la moglie del secondo avvocato difensore di Strauss Kahn, dunque processo in famiglia, con conflitto.
Gli immancabili sospetti di intrigo internazionale, il «complotto», ordito maldestramente attorno a una donna, Ophelia, con una vita troppo fragile, con un passato troppo facilmente smontabile per poter reggere alle indagini anche della stessa procura. Se questo è stato un complotto, una chiave di volta più debole i congiurati non avrebbero potuto scegliere.
Una storia newyorkese perfetta, di ambizioni e di appetiti insaziabili e incrociati, di suite di lusso e di loft da 50 mila al mese a Tribeca, di prime classi e di ultime classi nel crogiolo di Manhattan, che alla fine, come tutti i fuochi, divorerà tutti. Straus-Kahn, messo alla gogna ed espulso dal Fondo Monetario e che ora dovrà ricostruire la propria scala verso l’Eliseo; il giudice Obus, Minosse terribile che aveva preso per buone tutte le richieste dell’accusa e inflitto i 6 milioni di cauzione a Strauss-Kahn; i rapporti tra la Francia e gli Usa, sempre testi fra opposti complessi di superiorità e colpiti da bordate opposte di «maschilismo medievale» e di «puritanesimo inquisitorio»; il sistema della giustizia americana sempre pronta a bacchettare gli altri, come nel caso italiano di Amanda Knox, ma prona, come tutti, a colossali errori, abbagli e gaffe, i media, dal New York Times ai tabloid, scatenati sull’osso succulento. Cyrus Vance jr, che vede il proprio futuro politico in condizioni gravissime. E, laggiù in fondo, Ophelia la clandestina con i falsi documenti d’asilo politico, quella che alla fine pagherà , rispedita in Guinea per aver creduto di poter battere New York al gioco delle menzogne e delle vanità , in una stanza d’albergo di Manhattan.
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