by Sergio Segio | 1 Luglio 2011 5:57
MINSK. Non applaudite il dittatore. Minsk. Viktor Lukashenko, padrone della Bielorussia, sarà pure un rude contadino illetterato, ma capisce l’ironia e sa quanto possa far male ai potenti. E così ha deciso un provvedimento che lo piazza di diritto nella galleria dei despoti senza pudore. Domenica prossima, alle celebrazioni per la Festa dell’Indipendenza, chiunque si azzardasse ad applaudire il discorso del leader o le truppe in parata o, peggio ancora gli agenti dei servizi segreti che qui ancora si fregiano della famigerata sigla di Kgb, sarà arrestato. «Gli applausi saranno consentiti soltanto al passaggio dei veterani e dei reduci di guerra. In tutti gli altri casi interverremo», riassume il vicequestore Igor Essiev che pregusta altre retate mentre scruta sospettoso la passeggiata sulla piazza Oktiabravskaja.
Essiev e i suoi agenti, manette e manganelli in bella vista, hanno l’aria di non fidarsi di nessuno. Ricambiano ostili gli sguardi dei passanti, chiedono a casaccio i documenti ai giovani, alle anziane signore con la borsa della spesa. Non lo ammettono ma aggiungerebbero volentieri al divieto di applauso anche quello di un’altra cosa che comincia a innervosire il regime: il sorriso. Perché i sorrisi e gli applausi sono diventate le sole armi rimaste ai bielorussi per contestare in qualche modo il governo e la sua piega sempre più autoritaria inaugurata la sera del 20 dicembre al termine delle elezioni presidenziali che nessun osservatore internazionale ha voluto avallare come legittime e regolari. Da allora tutti i candidati rivali di Lukashenko e un migliaio di attivisti sono in galera con le accuse più fantasiose in attesa di processi segreti e con un verdetto deciso in partenza.
Ma i gerarchi di Lukashenko non hanno fatto i conti con la gente comune, stanca delle prevaricazioni della polizia ma soprattutto sfiancata dalla crisi economica e finanziaria che ha fatto crescere il costo della vita a livelli impossibili. E così, un po’ per gioco un po’ per rabbia è nata l’ultima moda della protesta. La scintilla nasce sempre da Internet che, nonostante gli sforzi del kgb, riesce sempre a sfuggire ai controlli. Ci si dà appuntamento davanti al gigantesco Palazzo delle Repubblica di piazza Ocktiabravskaja, oppure addirittura davanti al monumentale edificio sovietico di via Engels residenza del Presidente. Si sta attenti a camminare a distanza di un paio di metri gli uni dagli altri per evitare l’accusa di manifestazione. Niente cartelli, niente slogan. Ci si limita ad applaudire e a sorridere. Qualcuno più coraggioso fissa gli agenti e ride. Ride a crepapelle e applaude. Poi ricomincia a ridere. Agli agenti dà molto sui nervi ma fino ad oggi nemmeno nel regno di Lukashenko ridere è un reato. Qualche ufficiale prova a dire di smettere. I ragazzi continuano a ridere e la cosa contagia gli altri. E più il poliziotto si agita più le risate aumentano. Ridono i curiosi alle finestre, i camerieri davanti ai tavoli dei caffè, le ragazze che rientrano da scuola. Scappa da ridere perfino a qualche agente subito fulminato dagli sguardi dei superiori.
«Non è molto ma intanto serve a contare quelli che non ne possono più. E sono tantissimi. Sempre di più». Andrej Dmitrie, 27 anni, del movimento per i diritti civili “Dici la Verità “, si accontenta di questa sotterranea campagna di proselitismo. Era in piazza il 20 dicembre. Arrestato, ha passato quaranta giorni nelle celle della “Amerikanka”, la caserma del Kgb. Ha visto i rivali di Lukashenko arrivare uno per uno in manette. Perfino il poeta sessantaquattrenne Vladimir Neklyavev portato in cella come un pacco, avvolto in una coperta. Celle sporche, buglioli puzzolenti, carcerieri violenti, agenti provocatori camuffati da compagni di carcere. «Ma le storie di prigionia sono tutte uguali. Sono altre le cose su cui il mondo civile dovrebbe intervenire». E racconta di un giudice che lo interroga mostrandogli un dossier con le trascrizioni di tutte le sue mail, telefonate, sms. E non solo. «Avevano anche intercettato le parole che io e mia moglie avevamo pronunciato in casa tra di noi. Tutto proprio tutto, avete capito bene. Anche quelle cose che si dicono a letto, a bassa voce, a luci spente».
Adesso, con vaghe accuse di corruzione, Dmitrie è in attesa di giudizio come altre centinaia di cittadini di Minsk. I loro processi sono seguiti dai volontari del gruppo di Helsinki per i diritti umani che per gli occhi del mondo, sono ospitati in ufficio al settimo piano di un palazzo del centro. Apparentemente liberi. Il loro capo si chiama Garry Pogonjajlo, ha settant’anni e l’aria di uno che ne ha viste di peggiori. «Sono nato in un gulag perché i miei genitori dissentivano da Stalin. So che mi lasciano vivere solo perché sono legato a un’organizzazione internazionale. Ma le cose stanno cambiando. Marx la definirebbe una situazione pre-rivoluzionaria. La gente sta per esplodere. Putin lo ha capito. Infatti Mosca continua a tenere Lukashenko sulla corda, lo blandisce ma lo tiene a distanza, gli dà dei prestiti, poi minaccia di togliergli gas ed energia elettrica. Sa bene che ancora un po’ di crisi economica e il regime crolla da solo. Certo se l’Occidente si svegliasse sarebbe meglio per tutti».
Intanto si vive come in un romanzo di Orwell. L’altra sera Andrej Dmitrie ha fatto cenno alla moglie di uscire di casa. Senza parlare l’ha portata nel parco e ha cercato un posto abbastanza rumoroso per sfuggire a orecchie indiscrete. Lei si aspettava l’inizio di una qualche mobilitazione. Lui ha sorriso: «Volevo solo dirti che ti amo. Ma in casa mi vergogno, ci ascoltano in troppi».
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