by Sergio Segio | 21 Luglio 2011 6:18
NAIROBI. Li abbiamo visti arrivare alla spicciolata. Lo scatto di un fotografo, un breve filmato nei tg. Li conoscevamo già , sono tornati: i corpi scheletriti, gli occhi ingigantiti nei volti, lo sguardo muto. Gli affamati sono di nuovo tra noi. Alla fine anche la burocrazia globale delle Nazioni Unite ha apposto il suo timbro e il mondo ha ufficialmente appreso quello che milioni di africani sapevano già . Nel Corno d’Africa è in atto una spaventosa carestia, la peggiore degli ultimi vent’anni e secondo gli esperti «la prima da riscaldamento globale». È probabile che «decine di migliaia di persone siano già morte, nella maggior parte bambini», stando alle parole del coordinatore umanitario Onu per la Somalia, Mark Bowden. Se è così, è difficile capire perché l’allarme venga lanciato solo adesso, quando è da almeno un mese che le ong si sgolano per allertare l’opinione pubblica internazionale. Una logica, sia pure perversa, tuttavia c’è: proclamare uno stato di carestia è una decisione di rilevanza politica oltre che umanitaria, e le Nazioni Unite hanno impiegato ogni cautela. Probabilmente troppa.
L’allarme Onu riguarda per il momento due regioni della Somalia meridionale, il Sud Bakool e il Basso Scebeli. «Ma se non agiamo adesso», ha detto ancora Dowden, «entro due mesi la carestia si estenderà a tutte e otto le regioni della Somalia meridionale. Ogni giorno di ritardo negli aiuti è letteralmente questione di vita o di morte».
E non è tutto, perché la siccità – che della carestia e della morte per fame è la gran madre – è assai più estesa della sola Somalia meridionale. Essa sta infierendo direttamente e indirettamente nel Sud dell’Etiopia e nel Nord e nell’Est del Kenya. Direttamente, perché anche queste altre regioni del Corno d’Africa sono gravemente colpite dalla mancanza di piogge e da temperature più alte della media. Nella zona del lago Turkana, ad esempio, il bestiame è ormai decimato e i granai sono vuoti, con gravi e crescenti sintomi di denutrizione nella popolazione, come testimoniano le ong attive da quelle parti (“Veterinari senza frontiere” e “Medici senza frontiere”). Gli effetti indiretti sono dovuti invece all’enorme afflusso di profughi della fame dalla Somalia, che cercando di raggiungere il Kenya a Ovest – dove sono già arrivati a centinaia di migliaia – e l’Etiopia a Nord, aggravano con la loro sola presenza una situazione già deficitaria in materia di fabbisogno alimentare.
Se ci si limita alla sola Somalia, il numero di persone a rischio della vita è, secondo la stima Onu, di 3 milioni e 700mila, di cui 2 milioni e 800mila nelle regioni meridionali. Portare aiuti alimentari è un vero rompicapo, perché le infrastrutture somale sono devastate da un ventennio di guerra civile, i porti sono in mano ai pirati, gli aeroporti alle più diverse bande armate, le strade derelitte e aperte a predoni di ogni specie. Nell’immediato, la cosa migliore da fare secondo gli esperti è immettere denaro contante, sperando che in tal modo le derrate affluiscano sui mercati locali. E qui entra in gioco la politica.
A impedire l’afflusso di aiuti alimentari non è soltanto la catastrofe logistica. È stato anche, nei mesi scorsi, il divieto imposto dalle feroci bande islamiche che controllano buona parte del Sud della Somalia, gli Shabaab (ovvero “i ragazzi”). Gli aiuti creano dipendenza, avevano proclamato. All’inizio di luglio, vista la situazione, hanno tolto il bando, ma nel frattempo la macchina internazionale era rimasta ferma. Per questo, adesso, l’unica cosa che può arrivare rapidamente è il denaro. «Servono 300 milioni di dollari entro due mesi», ha detto Bowden. La prospettiva, per i donatori occidentali, è dunque quella di mettere una bella quantità di contante nelle mani degli Shabaab.
Non soltanto in Somalia la politica avvelena l’emergenza umanitaria. Anche in Kenya sono in gioco fattori che poco hanno a che vedere con la sopravvivenza degli esseri umani. Il punto d’arrivo dei profughi della fame che a intere famiglie si avventurano a piedi attraverso il deserto verso il territorio keniano, morendo a migliaia lungo il cammino, è una località chiamata Dadaab. Qui sorge da oltre un decennio un vastissimo campo, alimentato dai profughi della guerra civile e diventato negli anni una specie di piccola città di oltre 300mila abitanti. Nelle scorse settimane, vista l’onda di moribondi che si andava abbattendo su Dadaab, le organizzazioni umanitarie hanno allestito in tutta fretta un nuovo campo. Ma per lunghi giorni il governo del Kenya ne ha impedito l’apertura, con una motivazione in parte comprensibile: non voleva trovarsi sulle spalle una popolazione di profughi raddoppiata, accampata alla frontiera con un Paese che è diventato una delle centrali mondiali del terrorismo islamico. Alla fine il Kenya ha ceduto e da qualche giorno il nuovo campo è in funzione. Nel frattempo, il numero dei bambini e degli adulti che non ce l’hanno fatta è aumentato.
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