Somalia, in fuga dalla fame

by Sergio Segio | 27 Luglio 2011 6:18

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DADAAB (confine Kenya-Somalia). Guidare per quasi cento chilometri sulla strada sabbiosa che dal confine con la Somalia porta ai campi profughi di Dadaab, in Kenya, è un’odissea che si consuma in un paesaggio arido e privo di vita. Il fuoristrada sterza e sbalza per evitare gli scheletri di animali le cui ossa, sbiancate da un sole spietato, brillano come pietre preziose. I rami di alberi e arbusti rinsecchiti dalla siccità  sono come segnali stradali che mi avvisano: sono arrivato nella terra della siccità  e della morte.
Alla fine, eccoli. Vedo i colori sgargianti delle vesti delle donne e le piccole silhouette dei bambini rannicchiati nelle fasce sulle loro spalle. Vedo gli anziani avanzare lentamente con l’ausilio di un bastone di legno o di una canna. Vedo i ragazzini più grandi aiutare i loro fratellini a mantenere il passo del resto della famiglia.
Le espressioni vuote sui loro visi smunti dalla fame raccontano di un viaggio immensamente faticoso, a piedi per centinaia di chilometri in cerca di cibo e acqua. Tutti camminano su questa terra di nessuno verso quella che sperano sarà  la loro salvezza. Molti semplicemente non ce la faranno.
Sono i rifugiati somali in fuga dalla siccità  e dalla carestia che stanno flagellando le loro terre. Ogni giorno migliaia di loro, abbastanza fortunati da sopravvivere al viaggio, arrivano al campo profughi di Dadaab: circa 40mila soltanto dall’inizio di giugno. Arrivano esausti, affamati, spesso dopo avere perso alcuni dei loro cari lungo la strada.
Tra i rifugiati, sono i bambini che pagano il prezzo più alto alla siccità . Ora che lo stato di carestia è stato ufficialmente dichiarato in due regioni del Sud della Somalia e che i tassi di malnutrizione sono saliti a livelli allarmanti in tutto il Corno d’Africa, sono 720 mila i bambini che rischiano di morire per fame se non riceveranno assistenza immediata. In totale, sono 2 milioni e 230mila i bambini affetti da malnutrizione acuta in Etiopia, Somalia e Kenya.
Al Centro terapeutico alimentare di Hagadera (una delle strutture del complesso di Dadaab) incontro Abdile, padre di quattro bambini, tre dei quali sono in cura per malnutrizione grave. «Per colpa della carestia, abbiamo perso tutto il raccolto e tutto il bestiame, e non abbiamo più nulla da mangiare. Abbiamo camminato venticinque giorni per venire qui dalla Somalia. Mia moglie è morta durante il tragitto, e adesso sono solo a prendermi cura dei bambini». Quando Abdile e i suoi figli sono arrivati al centro di raccolta di Hagadera, uno di loro, Aden, era quasi morto. Non aveva neppure più la forza per deglutire. Lo hanno portato di corsa all’ospedale del campo, per una terapia d’urgenza. Questo avveniva sei giorni fa. Adesso Aden siede accanto a suo papà , e si capisce che sta recuperando rapidamente le forze. Grazie all’alimentazione terapeutica fornita dall’Unicef, la salute di Aden è migliorata e ora può sorreggersi senza aiuto esterno. Tuttavia il recupero è una fase difficile, che i medici del campo seguono con grande attenzione. Aden pesa appena cinque chili, e soffre di infezioni all’apparato respiratorio e alla pelle. «Quando ho visto Aden, sei giorni fa, dubitavo che sarebbe riuscito a sopravvivere. Adesso provo un brivido nel guardare come si è ripreso» confida Patrick Codjio, nutrizionista dell’Unicef. «Ogni volta che esco dall’ospedale dopo le visite ai bambini in cura per malnutrizione grave spero di rivederli di lì a poche ore, ma non posso mai essere certo che ciò avverrà ». Il primo, fondamentale obiettivo dei centri per la stabilizzazione qui a Dadaab è di rendere i bambini malnutriti abbastanza in salute da nutrirsi autonomamente. Accanto al lettino di Aden c’è Mohammad, tre anni, che proprio oggi ha raggiunto lo stadio tanto agognato. Vederlo fa bene al cuore.
I tre campi di Dadaab – Ifo, Hagadera e Dagahaley – sono stati creati all’inizio degli Anni ’90 per accogliere gli immigrati in fuga dalla vicina Somalia costantemente in guerra. Programmati per un massimo di 90mila persone, ora ne accolgono 400mila. Dadaab è diventato il più grande campo profughi del mondo e il terzo insediamento in Kenya, dopo la capitale Nairobi e la città  di Mombasa. Quasi tutti vivono in tende di fortuna. Sono soprattutto donne e bambini. Spesso sul campo soffia un vento forte, i bambini sono ricoperti di polvere e fanno fatica a respirare e a parlare.
Una donna, Fadumo, mi mostra suo figlio. Si chiama Ahmed, ha due anni e cinque mesi, ma è così piccolo che dimostra a stento un anno. «Viviamo qui nel campo – racconta Fadumo – e Ahmed oggi riceverà  il suo plumpy nut». Si tratta di una pasta di arachidi speciale ricca di calorie, sali minerali e vitamine che aiuta i bambini malnutriti a guarire. Ha l’aspetto di un panetto di burro, non ha bisogno di essere diluito in acqua, evitando così il rischio di malattie dovute all’acqua impura, e i bambini possono succhiarlo anche da soli direttamente dalla confezione, senza bisogno di medici o personale specializzato. Il plumpy nut è prezioso, considerando che un bambino malnutrito ha nove volte più possibilità  di ammalarsi e morire rispetto a uno sano. «Mio figlio era così magro, grazie a Dio ora sta meglio» sospira Fadumo.
Amina l’ho incontrata la prima volta al blocco N-zero del campo Ifo. Era incinta di sette mesi. Stava per avere il suo primo figlio nel campo e aveva solo 14 anni. Era arrivata dieci giorni prima con lo zio e i cugini dal Sud della Somalia. Ha raccontato il loro viaggio durato 26 giorni. Fortunatamente non sono stati attaccati dai banditi, ma hanno avuto paura delle iene e dei leoni. Quando finirono di mangiare una capra, iniziarono a chiedere l’elemosina a chi incontravano lungo il tragitto, qualcuno divideva con loro un po’ di riso e latte. Amina non è mai andata a scuola. I suoi genitori erano convinti che studiare non fosse importante e quando compì i 12 anni combinarono per lei un matrimonio. Suo marito adesso è da qualche parte a Kismayu alla disperata ricerca di un lavoro. Non è facile trovare lavoro di questi tempi.
Al campo ogni giorno ci sono file di donne con i loro bambini. Aspettano, in coda, per pesare i figli e ricevere qualcosa da mangiare. Insieme a loro aspetta anche Hawa Issak, 21 anni. Quando Hawa Issak si è decisa a lasciare la sua casa, la siccità  aveva già  ucciso la sua famiglia. Hawa si è trovata sola e incinta. È partita da Gedo, nel Sud della Somalia, e ha camminato per 420 chilometri, ventotto giorni nell’afa e nella polvere, per raggiungere Dadaab. Poco dopo, nel campo profughi, ha dato alla luce un bambino, il suo terzo figlio. «L’ho chiamato Ibrahim. Siamo sani e salvi, per il momento» sorride. Quella di Hawa Isaak e di Ibrahim è una storia di speranza. Molti arrivano troppo tardi, quando ormai non c’è più nulla da fare. Solo la scorsa settimana sei bambini sono morti nel centro nutrizionale.
Purtroppo l’emergenza è tutt’altro che prossima alla fine. Questa è la peggiore crisi alimentare in Africa da vent’anni a questa parte, e la peggiore in corso nel mondo in questo momento. Per ciascun Aden, Ahmed o Mohammad che sopravvive al viaggio e alla fame, ci sono migliaia di altri bambini la cui vita rischia di spegnersi lungo la strada per Dadaab.

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