Se a votare sono i mercati
Lì per lì la colpa era stata data a un giovane e intraprendente impiegato della filiale di Singapore che, all’insaputa dei suoi dirigenti, aveva perso l’equivalente di un miliardo di euro operando allo scoperto sulla borsa di Tokyo. Poi, poco a poco, si era venuto a sapere che di quei “giochi” era al corrente tutto lo staff dirigente della banca. E quelli di molte altre banche, che facevano esattamente la stessa cosa, su altri titoli o su altre piazze.
Già allora c’erano dunque tutti gli elementi per capire alcune cose: primo, che quelle operazioni, e altre consimili, si dovevano impedire; ma nessuna delle maggioranze al governo dei principali paesi dell’Occidente lo volle fare. E nessuna delle forze di opposizione – politica, o sociale, o associativa, o culturale – ne aveva fatto, né ne avrebbe fatto in seguito, la sua bandiera.
Eppure – secondo punto – la questione era della massima importanza; perché se a votare sono «i mercati» (e che mercati!), è chiaro che il voto dei cittadini non conta più; e alla democrazia si sostituisce la dittatura della finanza.
Oggi siamo a una resa dei conti. La finanza globale, con il suo «voto», controlla ormai il mondo intero. Ma non controlla se stessa. Quello che succede non è il risultato di un lucido piano concordato a tavolino, ma l’effetto di un meccanismo cieco che si chiama accumulazione del capitale. L’accumulazione del capitale non ha paura delle crisi, anche di quelle che provocano gigantesche distruzioni di ricchezza, comprese le guerre. E infatti, le conseguenze delle misure prese per fare fronte alla crisi finanziaria sono l’equivalente di un bombardamento sulla popolazione, sui posti di lavoro, sui redditi, sulle strutture produttive, sulla residua integrità del territorio di un paese. L’importante è che dopo la crisi o la distruzione si ricominci; perché è il meccanismo, e non il risultato, quello che va salvato.
Questo è il modo in cui procede la “crescita”; invocarla per porre rimedio all’impasse attuale vuol dire sostenere una continua riproposizione di quel meccanismo.
La crisi attuale ci insegna dunque che la politica italiana – come quella di molti altri paesi europei – si fa in sede Ue; e che a farla è il «voto» dei mercati, cioè il capitale finanziario. Poi, che il voto dei cittadini non conta niente; i referendum hanno detto chiaramente che i cittadini italiani non vogliono le privatizzazioni: né dell’acqua né dei servizi pubblici locali; mentre la manovra appena approvata si regge su privatizzazioni destinate ad azzerare per sempre qualsiasi forma di federalismo (alla faccia della Lega), mettendo i servizi pubblici in mano alla finanza e relegando i sindaci al compito di gestire l’anagrafe e dare la caccia agli extracomunitari.
Ma non esistono neanche più i partiti. Quando sono in gioco questioni cruciali, la cosiddetta opposizione si rivela per quello che è: un mero puntello del Governo. Perché per loro, alle scelte del Governo – che non sono una «politica», essendo l’esatto contrario di quello che il Governo era andato sostenendo e promettendo fino a tre giorni fa – come alle scelte dell’Unione Europea – quali che siano; perché nessuno sa quali saranno – cioè ai diktat della finanza internazionale non c’è alternativa.
Nessuno prova più a proporre qualcosa, se non invocare generiche misure per la «crescita»; senza neanche più elencarle – tranne minuzie come l’abolizione degli Ordini professionali o quella delle Province, senza spiegare con che cosa sostituirle – perché ogni proposta potrebbe venir vanificata, da un giorno all’altro, da un nuovo sobbalzo dei mercati finanziari. Così Berlusconi e il suo Governo, tenuto in sella dai nuovi «responsabili», che si guardano bene dal chiamare alla mobilitazione contro queste misure – e se ne vantano – possono perpetuare le loro truffe e i loro imbrogli (da Bertolaso a Milanese, passando per Bisignani e compagnia – senza nemmeno intaccare il costo stratosferico dei propri e degli altrui parlamentari. Per non parlare di una vera patrimoniale: quella che Tremonti ha fatto per anni, al contrario, con i condoni e gli scudi fiscali.
La Grecia, come Stato, è già fallita; ormai lo riconoscono tutti. Non ha né avrà mai più la possibilità di fare fronte ai suoi debiti. Ma prima di dichiararla tale si vuole raschiare il barile fino al fondo: succhiare tutto quello che si può ancora estrarre dai redditi dei suoi cittadini e impadronirsi di tutti i servizi pubblici e i beni comuni di cui è ancora in possesso. Quello che l’Ue deve decidere è che cosa caricare sui redditi dei contribuenti, soprattutto tedeschi, ma non solo: se i costi dell’insolvenza della Grecia, per salvare le banche cariche di bond greci, oppure l’insolvenza delle banche che hanno quei bond. Ma il problema potrebbe ripresentarsi altrove; perché nel bel mezzo di questo dilemma il «contagio» si è trasmesso ad altri paesi già in bilico; e fermarlo adesso è molto più difficile e costoso: naturalmente per chi dovrà farsene carico, cioè i lavoratori e i disoccupati europei. Per di più in un contesto assai turbolento. Anche gli Stati Uniti sono sull’orlo del default. E neanche il governo cinese, loro principale creditore, se la passa più tanto bene; e potrebbe cominciare a presentargli il conto. Insomma, tutto lascia credere – ma ben pochi lo dicono, perché il problema è per ora quello di passare all’incasso di quanto si è già estorto – che questa manovra mostruosa non metterà affatto «al sicuro» i conti dello Stato italiano, come non erano «al sicuro» quando Tremonti ce lo assicurava una settimana, un mese, un anno o dieci anni fa. E che è sempre più probabile che il punto di approdo di questa deriva sia comunque il default; in un contesto internazionale in cui non saremmo certo i soli. Allora tanto vale arrivarci subito.
Sicuramente la minaccia di farlo potrebbe costringere l’Unione Europea a cambiare rotta, almeno per un po’: assumendo o garantendo il debito di tutti i paesi membri e dando loro un po’ di respiro. Ma per fare che? Il problema vero non è il debito, ma un meccanismo di «crescita» bloccato; che non riprenderà certo se banche e Stati europei avranno la possibilità di mettere sul mercato qualche decina di miliardi in più. Perché quei mercati sono in gran parte saturi e quelle produzioni e quegli investimenti non fanno «sviluppo» né occupazione, ma solo danni e violenza.
Valga per tutti il Tav Torino-Lione, che ormai si configura come niente altro che una truffa all’Unione Europea: tutti sanno che non verrà mai portato a termine; ma potrebbe tenere in vita per qualche anno i costruttori a cui il Sindaco di Torino e il Presidente del Piemonte hanno legato le loro fortune: a spese della popolazione della valle, che è un esempio vivente di democrazia partecipata; e dell’intero popolo italiano, ingannato (ma fino a quando?) con la favola della «modernizzazione» delle infrastrutture. Ma sono forse diversi il piano «Fabbrica Italia» di Marchionne, o il programma di incenerimento dei rifiuti in tutta Italia (proprio mentre si dimostra che la raccolta differenziata può arrivare all’80 per cento; e la riduzione fare anche di più), o i progetti edilizi sull’area dell’Expò milanese?
Certo, le cose giuste da fare non mancherebbero: dalla conversione energetica (efficienza e fonti rinnovabili) a quella agricola e alimentare; dalla mobilità sostenibile di persone e merci alla salvaguardia del territorio; dal potenziamento della ricerca – mirata ai temi della conversione ecologica – e dell’istruzione, di base e permanente, al potenziamento dei servizi pubblici locali come volano di un’economia centrata sui territori (cioè con rapporti più diretti tra produzione e mercati locali, in modo da sottrarsi – senza impossibili protezionismi – alla morsa di una concorrenza globale che distrugge le economie locali, crea disoccupazione e impone condizioni di lavoro inaccettabili); da una riforma della Pubblica amministrazione che metta in mano a chi ci lavora e chi la utilizza il compito di individuare le sacche di inefficienza e nuovi modi per assolvere ai propri compiti (l’opposto di quello che fa Brunetta, con i risultati che tutti vedono) a un reddito garantito che metta tutti in grado di trovare il modo di valorizzare al meglio le proprie capacità e i propri saperi.
Ma chi può fare tutto ciò, e altro ancora? Per ora nessuno. Ma è nella risposta di massa di tutti gli indignati d’Europa, se e nella misura in cui si svilupperà e riuscirà a imporsi, che si potranno creare gli embrioni di organizzazioni e di strutture di gestione alternative a quelle esistenti; in grado di imporre anche all’agenda politica dell’Unione Europea gli obiettivi di una politica che ci risollevi dal mondo di macerie in cui la sua governance ci sta precipitando.
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