S&P minaccia gli Usa sul debito

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NEW YORK – Presidente, nutre ancora la speranza di un grande accordo sul debito? «Io ho sempre speranza: non ricordate la mia campagna?». Barack Obama, l’uomo di «Hope», ci scherza su: «E dopo due anni e mezzo ho ancora speranza». Lui sì: ma l’America che guarda lo spettacolo inglorioso di repubblicani e democratici che rischiano di mandare il colosso in default?
«Stiamo andando fuori tempo massimo, ho dato ai leader un altro giorno di tempo». E’ il penultimatum per evitare il disastro che si aprirebbe il 2 agosto, se non si alza il tetto del debito-monstre di 14.300 miliardi: l’America che per la prima volta non tiene fede ai sui creditori, lo Stato che può spendere solo quello che incassa. Le agenzie di rating, Moody’s e solo ieri Standard and Poor’s, hanno già  minacciato di degradare gli Usa, sarebbe la prima volta, i tassi di interesse salirebbero e tutto questo, spiega il presidente pronunciando quella parola che dovrebbe fare riflettere i conservatori che la repellono, «sarebbe come un aumento delle tasse per tutti».
Eppure non solo è lontano il grande accordo: quel «grande piano» proposto da Obama e prima accarezzato e poi sconfessato dal capo dei repubblicani, John Boehner, 4mila miliardi di tagli in dieci anni, compresi mille in arrivo dalla riforma del sistema fiscale, che il Gop aizzato dai Tea Party rigetta perché «aumenterebbe le tasse». Ma dopo cinque giorni di discussione consecutiva i repubblicani presentano ora un contropiano da 2mila miliardi e mezzo, su proposta del falco repubblicano Eric Cantor, che la Casa Bianca giudica già  inaccettabile: perché quei tagli massacrerebbero solo il ceto piccolo e medio, massacrando il welfare e lasciando intonse le tasche dei ricchi. Non che lui non voglia mettere mano alla sanità  anzi. «Compirò in un paio di settimane 50 anni anch’io, prenderò la tessera e avrò diritto agli sconti», scherza. Ma modifiche bisogna farne, eccome, anche lì: tant’è che già  la sua base scalpita e, tanto per complicare le cose, lo critica.
«Basta ideologie», risponde il presidente: «Washington ha esaurito la sua carta di credito e ora deve pagare il conto: come fanno tutti». Con un grande accordo potremmo sistemare il nostro debito e il nostro budget per 10, 15, 20 anni, dice: possiamo farcela, «siamo mica la Grecia o il Portogallo», sottolinea, per tacere evidentemente dell’Italia. Le prova tutte. Chiama i repubblicani «i miei amici». Eppure i suoi amici vanno sulla loro strada, la prossima settimana voteranno alla Camera i loro tagli, che non potrebbero mai passare al Senato. Sarebbe il caos. Ecco perché tra le due litiganti proposte, e altre variantine che prevedono perfino correzioni costituzionali, prende sempre più forza il piano B. Lo porta avanti un repubblicano responsabile, il capo dei senatori Mitch McConnell, uno dei pochi a temere che il mancato accordo possa poi essere rinfacciato alle elezioni proprio a loro. Piano complicato, che affiderebbe al presidente la responsabilità  di alzare il debito a tappe, per tre volte, giusto quanto basta, fino a tutto il 2012. Loro se ne laverebbero le mani ma il default sarebbe evitato. E lui che dice? Non che non è contento. «Ma almeno evitiamo l’Armageddon». Alla faccia della speranza: Barack teme la fine del mondo.


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