by Sergio Segio | 7 Luglio 2011 4:18
I documenti sonori che le inchieste di Repubblica/l’Espresso vanno pubblicando nella sezione dedicata del sito dimostrano qualche fatto ostinatissimo.
In Rai, nel sistema pubblico televisivo, è stata all’opera – e nessuno può escludere che ancora lo sia, se solo si guarda a quel che combina ogni sera il direttore del Tg1 – un sodalizio che, al servizio di un solo uomo, proprietario di Mediaset e capo del governo, ha manipolato l’informazione. Ha corrotto il linguaggio. Ha falsificato la realtà . Ha concordato l’agenda dell’attenzione pubblica con il network concorrente. Ha schedato, discriminato e danneggiato i discordi, ovunque fossero in quell’azienda: nelle redazioni, sul palcoscenico, tra i funzionari e dirigenti della Rai. Il manipolo di infedeli (li si può definire così? O come altro li si può definire?) ha tradito i più elementari principi di correttezza aziendale e, quel che più conta, ha ingannato i telespettatori, i cittadini, l’opinione pubblica.
È questo inganno lo scandalo perché – con un’informazione che nasconde i fatti, li manipola e li confonde, li omette o addirittura li sopprime – la libertà d’opinione viene umiliata, la possibilità del cittadino di formarsi in autonomia una convinzione sullo «stato delle cose» diventa una burla.
A fronte di questo scandalo, è uno scandalo doppio l’indifferenza che vuole nascondere quel che è avvenuto e ancora avviene. Sono di palese evidenza le trascuratezze complici della politica, i silenzi colpevoli degli attori istituzionali. A cominciare dalla magistratura. Per dire meglio, dalla procura di Roma sempre all’altezza dell’antica definizione di «porto delle nebbie». L’inchiesta che consente di raccogliere le conversazioni del drappello di uomini di Berlusconi al lavoro, nel suo interesse, nel corpaccione della Rai nasce a Milano. S’indaga per una bancarotta fraudolenta. Quando i pubblici ministeri ascoltano quelle conversazioni saltano sulla sedia. La notizia di reato è limpida. Ipotizzano l’abuso d’ufficio, per cominciare. Impacchettano ogni cosa – intercettazioni e brogliacci – e spediscono i documenti a Roma, competente per territorio. Nella Capitale, l’affare è assegnato al dipartimento della pubblica amministrazione della Procura, diretto dall’«aggiunto» Achille Toro. La toga, oggi nei guai per aver violato il segreto istruttorio a vantaggio dei corrotti e corruttori del «sistema Protezione Civile», è sempre prudente quando in ballo ci sono interessi e destini politici. Lo sarà anche in questo caso. Prima di mettersi in movimento – e nonostante le intercettazioni confermino in modo nitido gli abusi – l’inchiesta s’affloscia in una frettolosa archiviazione. È soltanto la prima omissione, il primo nascondimento.
Oggi con sotto gli occhi le interferenze dirette e indirette di Berlusconi e dei suoi uomini sulla programmazione e l’informazione della Rai qualcosa Viale Mazzini doveva muovere. Anche soltanto per dimostrare di essere ancora in vita. È un paradosso fragoroso: se oggi il direttore generale Lorenza Lei e il consiglio d’amministrazione, presieduto da Paolo Garimberti, possono presentarsi davanti alla commissione parlamentare di vigilanza con in mano una mossa, una replica, una qualche reazione allo scandalo, lo devono non alla loro personale volontà di fare chiarezza, ma alla determinazione di un alto dirigente (Gianfranco Comanducci), oggi vicedirettore generale, di uscire pulito dall'”affaire”. È per sua iniziativa che la Rai ha messo in movimento la struttura aziendale dell’internal auditing che condurrà un’indagine interna. «Sia ben chiaro – dice però la Lei – che non mi presterò e non consentirò che l’azienda possa vedere pregiudicata la propria immagine sulla base di processi sommari, prima ancora che siano accertate eventuali responsabilità sulla base di fatti puntualmente dimostrati».
Non si capisce quale dimostrazione puntuale attenda ancora Lorenza Lei. I documenti sonori resi pubblici da Repubblica danno ragionevolmente prova di tre circostanze.
1. I dirigenti piovuti in Rai da Mediaset o addirittura dalla segreteria di Berlusconi (come Deborah Bergamini) concordano con i dirigenti Mediaset (come Mauro Crippa) il palinsesto in modo da non danneggiare gli ascolti del network privato del Cavaliere. 2. I dirigenti della Rai di provenienza Mediaset definiscono con il capo azienda (Flavio Cattaneo) e alcune direzioni giornalistiche la manipolazione dell’informazione come accade con l’occultamento della sconfitta di Berlusconi alle Regionali del 2005. 3. Quel sodalizio politico-professionale, che chiamiamo per semplificazione giornalistica «Struttura Delta», è organizzato e guidato direttamente da Silvio Berlusconi (è con «il Dottore» che definisce le linee strategiche del lavoro) e ha, tra l’altro, la missione di fare della Rai un’articolazione del partito di Forza Italia.
Ora non interessano i «processi sommari». Né importa il destino personale della squadriglia di infedeli, sempre che facciano un passo indietro e non coltivino l’ambizione di restare ai vertici dell’azienda pubblica. Quel che conta è comprendere e neutralizzare il sistema di comando che il tycoon di Mediaset e capo del governo ha imposto al servizio pubblico radiotelevisivo e chiedersi se le tossine di quegli anni avvelenano ancora la governance della Rai.
Per venirne a capo è necessario sapere che cos’è la «Struttura Delta». Prima che un sodalizio, la «Struttura Delta» è un dispositivo, un metodo di lavoro che consente di disegnare la trama stessa della realtà , di eliminare ogni differenza tra ciò che accade e ciò che la politica vuole raccontare. E’ questo il lavoro della «Struttura Delta». Per dirla con uno slogan, la sua missione è rendere impossibile separare i fatti dalle costruzioni ideologiche o dalla pubblicità politica. Chi ricorda, per fare solo un esempio, il 2001 elettorale quando i telegiornali raccontavano le città italiane attraversate da bande assassine di malavitosi mentre Berlusconi, con il sostegno della Lega, incardinava la sua offerta politica nella sicurezza in pericolo?
Il lavoro della «Struttura Delta» non è altro che l’estensione all’informazione Rai e quindi al discorso pubblico dei vecchi comitati editoriali della Fininvest. E’ noto. Una volta al mese, «i principali responsabili e attori della comunicazione del gruppo» si incontravano ad Arcore con il Cavaliere per «un franco e approfondito scambio di informazioni e di idee e tra gli opinion makers».
Vediamo quali sono i presenti in una riunione per molti versi storica (le notizie sono tratte da Passionaccia di Enrico Mentana). È il 20 marzo del 1993 e per la prima volta Berlusconi sostiene che «l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica». È l’annuncio che il Cavaliere vuole farsi leader politico. Quel giorno lo ascoltano, nella rituale riunione mensile, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio (allora in Publitalia), i mondadoriani (Tatò, amministratore delegato; Mauri, direttore dei periodici; Monti, Panorama; Briglia e Donelli, Epoca; Bernasconi e Vanni dei femminili; Orlando, il Giornale; Vesigna, Sorrisi e Canzoni), i televisivi (il capo delle produzioni di Roma Vasile, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana). Con il tempo si aggiungeranno Paolo Liguori, direttore di Studio Aperto, Paolo Guzzanti che avrebbe condotto un talk show televisivo, Vittorio Sgarbi e Giuseppe Dotter, il direttore de La Notte.
Nel tempo sono cambiati i nomi e gli incarichi, non il metodo. Ora immaginiamo la squadra di Berlusconi, che già controlla buona parte dell’informazione e dell’intrattenimento, allargata al direttore generale della Rai, ai direttori di Rai 1 e Rai 2, ai direttori del Tg1 e del Tg2, come a dire quasi del tutto all’altra metà dell’informazione e dell’intrattenimento. Questa «squadra», questa «Struttura» consente a Berlusconi, presidente del Consiglio, di decidere buona parte dell’attenzione pubblica perché il 40 per cento non legge un giornale mentre tutti gli italiani (98.5 per cento) guardano la televisione e per il 70 per cento il telegiornale è la sola e unica finestra sul mondo. Il Cavaliere si ritrova così tra le mani il controllo pieno dell’agenda dell’informazione. Decide quel che avrà la posizione principale nelle news televisive e sulle prime pagine dei giornali e, quel che più conta, stabilisce ciò che il Paese saprà di se stesso e che cosa gli sta accadendo. Ordina quel di cui discuterà o di che cosa non si discuterà .
È di questo dominio incondizionato sull’attenzione pubblica e sulla realtà che parlano i documenti sonori resi pubblici da Repubblica. Sollevano una questione politica decisiva perché, come scrisse Carlo Azeglio Ciampi nel messaggio alle Camere del 23 luglio 2002, «la garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta». Quel che il dispositivo della «Struttura Delta» mette in gioco è quella garanzia e dunque la qualità della nostra democrazia, la sua compiutezza, il diritto di informazione garantito dall’articolo 21 della Costituzione. E’ un diritto che può dirsi soddisfatto, si legge in una sentenza della Corte Costituzionale (155/2002), «dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie – così da porre il cittadino in condizione di compiere le proprie valutazioni avendo presente punti di vista e orientamenti culturali e politici differenti – e dall’obiettività e dall’imparzialità delle dati forniti, e infine dalla completezza e dalla correttezza dell’informazione». È impossibile anche per un mago conciliare queste parole con l’inganno imposto ai cittadini dalla posizione dominante della «Struttura Delta». Lo scandalo è qui. Interpella la Rai, certo, ma anche la politica e chi ha a cuore le parole della Costituzione.
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