Questa finanziaria affosserà  anche il Pil

by Sergio Segio | 22 Luglio 2011 7:20

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È sbagliato però estendere lo stesso ragionamento al debito statale perché esso si rapporta all’insieme dell’economia. Partendo da un rapporto iniziale tra debito pubblico (numeratore) e reddito nazionale (denominatore), il rientro dal debito dipende dall’espansione del denominatore rispetto al numeratore, una volta noto il saggio di interesse. Per tutto il 2010 Grecia e Irlanda hanno effettuato tagli mostruosi al bilancio pubblico ritrovandosi con un debito accresciuto. I tagli alla spesa, alle pensioni e i licenziamenti nel pubblico impiego hanno fatto crollare il reddito nazionale. La caduta del Pil (il denominatore) ha pertanto impedito di ottenere un aumento delle entrate fiscali compatibile con la manovra di rientro dal debito. Man mano che l’operazione falliva aumentava il saggio di interesse di rischio (spread) sui buoni pubblici greci aggravando sia il debito che il bilancio corrente. Ne consegue una verità  lapalissiana: ridurre il numeratore, il debito, riduce anche e maggiormente il reddito nazionale, cioè il denominatore.
L’Italia è in marcia su questa strada visto che l’export non riesce a sollevare l’economia dalla melma. Quindi la manovra appena varata agirà  molto negativamente sul Pil, seguita da altre oltre i livelli di sopportazione della cittadinanza
A prescindere dall’uscita dalla stagnazione in corso, può un’economia con un alto debito pubblico evitare il ciclo infernale del marasma finanziario causato dell’aumento del saggio di interesse di rischio sui titoli cui si risponde con dosi crescenti di austerità ?
Prendiamo il caso del Giappone. Tokyo è in stagnazione da due decenni e ha accumulato enormi capacità  produttive eccedentarie. Dal 1993 il governo ha fatto di tutto per sostenere le varie componenti del capitale nipponico senza riuscire a rilanciare l’economia. Anche per il Giappone i conti esteri, sebbene siano positivi, non costituiscono più una soluzione. Tuttavia il fatto che il debito pubblico giapponese abbia raggiunto il 210% del Pil (l’Italia è al 120%) non si accompagna ad impennate nel saggio di interesse sui bond di Tokyo.
L’anno scorso le agenzie di rating emisero un avviso di rischio senza che vi fosse alcun effetto sui tassi applicati ai titoli giapponesi che continuano a essere fissati a un livello minimo rapportato allo 0,3% della Bank of Japan. Esaurite le spinte dei rilanci varati nel 2009/10 quest’anno il Pil scenderà  nuovamente di circa l’1% mentre il deficit è al 9%. I mercati dovrebbero essere pieni di adrenalina nipponica. Invece si sostiene che la calma del mercato dei titoli di Tokyo è dovuta al fatto che essi sono per il 95% detenuti da entità  giapponesi.
Anche l’85% dei titoli italiani è in mani italiane. In Giappone però la Bank of Japan e il Tesoro operano di concerto. Il primo emette buoni a basso tasso di interesse e la seconda li compera. Inoltre, dato il sistema feudal-capitalistico del Giappone, Tokyo «consiglia» alle banche private di acquistare i titoli pubblici a rendimenti effimeri. La chiusura del circuito finanziario tramite l’alleanza tra Bank of Japan e Tesoro neutralizza la volatilità  dei prodotti derivati (CDS) abbinati ai titoli pubblici. In Italia invece gli spread aumentano perché i mercati sanno che il sistema dell’euro conferisce ai mercati privati il rifinanziamento del debito. Anche se l’85% dei titoli è in mani italiane il circuito si spezza in rapporto ai CDS ubicati ovunque che entrano in fibrillazione. Quindi la differenza cruciale tra l’Italia e il Giappone, e anche tra l’Italia e gli Usa se innalzano il tetto del debito, sta nella separazione totale tra le due braccia della politica economica, quella fiscale del Tesoro e quella monetaria della Banca Centrale con il dominio della seconda sulla prima.
La separazione è solo apparentemente vincolante. È il prodotto dei rapporti tra la Germania e la Francia e l’esperienza del 2003-4 e del 2008-9 ha dimostrato che quando non conviene sia Berlino che Parigi sono pronte a liberarsi dei vincoli. In teoria potrebbe farlo anche l’Italia. Però nell’assetto attuale, perfetto per le politiche di deflazione sociale, pensionistica e salariale, non esiste la possibilità  di trovare una soluzione se non attraverso un deciso scontro sociale che cambi i termini e le priorità  di riferimento.

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