Quanta ipocrisia quella mano sulla bara

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L’ipocrisia ha regnato sovrana nell’aula dove, con qualche eccezione dei senatori radicali e quelli dell’Idv, si è preferito rimandare il problema. Mettendo avanti il dovere di essere vicini ai militari. Ma di quale doverosa vicinanza vogliamo parlare? Di quella ipocrita che si esprime davanti all’ennesima bara avvolta nel tricolore? Sarebbe meglio parlare di come la politica degli annunci di La Russa ha ridotto le nostre forze armate.
Solo qualche settimana fa il ministro della difesa aveva affermato che queste missioni servono anche a compensare i miserabili stipendi che percepiscono i militari, dimenticandosi però che proprio lui e i suoi colleghi di governo mesi or sono avevano brindato al riconoscimento di una specificità  che non si è mai tradotta in atti concreti ma, semmai, in uno strumento che fa del «cittadino militare» un minus habentes, un numero, buono per tutti gli usi, dal raccogliere mondezza a farsi sparare in Afghanistan per gli interessi del governo.
In queste ore sul sito della difesa campeggia la foto di un politico che poggia la sua mano sulla bara della 41esima vittima, appena sbarcata dall’aereo proveniente dall’Afghanistan. Quella mano è la stessa che ordina di andare a combattere le guerre che la Costituzione ripudia. La costituzione sulla quale il ministro ha giurato. Con quale coraggio e quale faciloneria si compiono certi gesti mentre, poi, si afferma tutto e il contrario di tutto nascondendo sotto l’alto significato della parola «democrazia» squallidi interessi economici e di bottega.
Qualcuno li chiama eroi, altri servi del potere costituito, altri li compatiscono, altri li piangono in silenzio con quel pudore e quella compostezza che chi li manda a farsi massacrare non conosce. Io li chiamo vittime del dovere, del servizio e dello stato perché è da ipocriti voler continuare a giustificare la presenza italiana in quelle missioni di guerra con la scusa di dover imporre la nostra concezione di democrazia a un popolo che da millenni osserva tradizioni diverse in una cultura diversa, mentre nel resto del mondo sopravvivono culture che secondo i nostri parametri di «civiltà » sono a volte peggiori, ma totalmente ignorate.
Non è con la forza delle armi che si risolverà  la situazione in Afghanistan dove dieci anni di guerra degli italiani sono serviti per non cambiare nulla. E per contare 41 bare. È ora di riflettere e cominciare seriamente a percorrere la strada di una vera cooperazione. Purtroppo il nostro impegno per la cooperazione per il 2011 è risibile, appena l’1,5% del miliardo e mezzo di euro spesi. In questo modo si svilisce anche il sacrificio di chi è morto e di quelle popolazioni che sul nostro aiuto umanitario fondano le loro speranze e il loro futuro.
È chiaro che la cooperazione, quella che certamente dovrebbe caratterizzare queste missioni, non è un buon affare per i nostri politici.
* L’autore è il segretario del «partito per la tutela dei diritti dei militari».


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