Quando la purezza per salvarsi diventa crudele
Le sono arrivato a un passo: Agota Kristof era lì, avrei potuto allungare la mano e toccarla, per lo meno avrei potuto dirle quanto la ammiravo, quanto tempo avevo passato in compagnia dei suoi pensieri e delle sue parole, cercando di trovare in italiano le corrispondenze esatte, di non tradire quel suono nitido, scostante, petroso. Un anno intero avevo dedicato alla traduzione di Hier, l’altro capolavoro della Kristof oltre alla Trilogia della città di K., un anno in compagnia di Tobias Horvath, il protagonista del libro, delle sue emozioni gelate, della sua severissima vocazione alla scrittura: mi sembrava di aver fatto un buon lavoro e allo stesso non ne ero convinto fino in fondo, e ora ero lì, al teatro Argentina di Roma, e Agota Kristof, ospite di non so quale rassegna, parlava con qualcuno: anzi, non parlava, ascoltava e basta, e forse neanche ascoltava. Ricordo una faccia tonda, capelli corti e lisci, grigi, occhi di sasso grigio, un’aria da bambina vecchia, semplice e intransigente, presente al mondo eppure assente, come chi sta qui e insieme da un’altra parte. Stavo per dirle ho tradotto il suo romanzo, e non ho detto niente, sono scivolato via.
Se devo esprimere con sincerità quale sentimento mi abbia allontanato, devo ammettere che fu la paura. Ho avuto paura di quella donna, paura di parlare con lei per due minuti, da soli. Era come se attorno avesse un filo spinato invisibile, carico di punte e di un’energia elettrica così potente da incenerire chi osasse provare a raggiungerla. Eppure quanto ho sentito nell’anima e nel corpo questa scrittrice, quanto ne ho parlato, cercando di farla leggere a tutti quelli che amano la letteratura. All’inizio mi dicevano: “Ma chi, Agatha Christie?”, per un equivoco inevitabile. Ci mettevo sempre un po’ a spiegare che si trattava di due persone diverse. Neppure le più grandi esperte di letteratura femminile avevano mai sentito nominare la piccola ungherese che scriveva da sempre in francese.
A me era capitato tra le mani un po’ per caso il primo romanzo della trilogia, edito da Guanda. Le grand cahier era diventato Quello che resta e credo avesse venduto quasi niente. Guanda stampò anche La prova, con uguali risultati, quindi mollò. Ma chi aveva letto la storia di Lucas e Klaus, i due gemelli ferocemente uniti e ferocemente divisi, non poteva più dimenticarli. Sono due ragazzini cresciuti in un paese dilaniato dalla guerra e dall’occupazione nemica, un paese senza nome, astratto come una terra dove regna solo il dolore, ma riconducibile all’Ungheria, dove la Kristof aveva passato tutta la prima parte della sua vita. Klaus e Lucas sanno che possono resistere solo se saranno più forti di ogni sofferenza, sanno che per reggere l’urto brutale dell’orrore, della violenza, dell’insensatezza dovranno diventare due piccoli samurai. Il tema di fondo è tipicamente novecentesco, ma ribaltato: qui nessuno si fa minimo nell’abulia, nell’indifferenza, nel timore che ruba l’anima. Qui ci si tempra nella disciplina spontanea, si diventa duri come l’acciaio, impietosi con se stessi, capaci di sopportare pesi e prove, di rinunciare a tutto pur di crescere. Lucas è il maestro di Klaus e Klaus lo è di Lucas: sono due e si controllano, si incoraggiano, si giudicano, sono due e sembrano uno, come se una sola volontà abitasse due corpi.
E leggendo il dubbio cresce, diventa quasi un sospetto: ma davvero esistono i due gemelli, davvero questa entità si sdoppia, o forse si tratta di una sola potentissima mente che si rispecchia per rafforzarsi, per perfezionarsi, come una palla che batte e ribatte sul muro e torna indietro sempre più precisa? Non c’è alcun psicologismo, siamo immediatamente dalle parti del mito, della favola primaria, nera e archetipica. Da una parte c’è il mondo – che potrebbe essere l’Ungheria comunista, ma anche qualsiasi posto dove il sopruso e la violenza imperano – e dall’altra parte c’è una innocenza che non può cedere, che per conservarsi deve diventare crudelissima. Tutto accade in virtù di una lingua scabra ed elementare, elusiva per semplicità e chiarezza. Se si comincia a leggere, si entra in un bosco di pietra, in un labirinto dal quale si esce solo saltando il muro altissimo, come i gemelli faranno alla fine del libro.
Ieri rappresenta il secondo capitolo di una vita: la fuga da Budapest ormai è avvenuta, il 1956 e i carri armati sovietici sono alle spalle, ora dovrebbe esserci l’Occidente, la libertà , la pienezza e le diversità dell’esperienza. Ma per Agota Kristof conta soltanto la conquista di una libertà interiore, e questa dimensione si ottiene solo con la rinuncia a ogni lusinga. Se Lucas e Klaus erano due samurai, Tobias è un monaco. Lavora in una fabbrica di orologi in Svizzera, alle spalle crede di avere solo un omicidio e l’infinito amore per la sorella. Attorno non ha niente. La sua vita è un vuoto purissimo, un nido che deve accogliere le parole esatte della scrittura. Ogni avvenimento è solo distrazione. La sorella arriverà da lontano, qualcosa tra loro avverrà , ma poi la vita sarà di nuovo una cella fredda dove concentrarsi per scrivere la verità .
Così sono i libri di Agota Kristof: implacabili manuali di sopravvivenza psichica, inviti alla sottrazione per ritrovare la densità della vita, storie di santi moderni che vagano nel deserto, si nutrono di nulla e pensano in silenzio a qualcosa che dia senso a tutto questo dolore. Ero a un metro da Agota Kristof, avrei tanto voluto abbracciarla, ringraziarla, offrirle da bere in un bel caffè di Roma, e non ce l’ho fatta. Me ne pento, ma so che nessuna cordialità , nessun sorriso facile, nessuna umana dolcezza potevano fare breccia in una vita che non perdonava niente a nessuno, soprattutto a se stessa. Viveva solo nella letteratura, la Kristof, dunque vivrà per sempre.
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