“Piano debole e limitato” ora i mercati condannano lo scarso coraggio dell’Europa
La guerra di trincea fra i mercati e l’Europa inizia adesso e non riguarda più la Grecia, ma, in generale, l’area euro, Italia e Spagna in testa. I fronti dell’offensiva erano, quasi tutti, già aperti fin da ieri. Moody’s ha nuovamente declassato, dopo il salvataggio della Grecia varato giovedì scorso dai leader europei, il debito di Atene. Il differenziale fra i rendimenti chiesti dagli investitori per acquistare titoli pubblici tedeschi e quelli per i titoli italiani e spagnoli ha ripreso a marciare verso livelli record.
Le quotazioni di molte grandi banche europee stanno cadendo a candela, probabilmente per una crisi di liquidità : i grandi fondi americani, nelle ultime settimane, avrebbero prosciugato – preoccupati per la crisi dell’area euro e delle sue banche – la disponibilità di finanziamenti, al di là dell’orizzonte di tre mesi, in particolare per gli istituti italiani e spagnoli. La quota delle banche dei due paesi in questo bacino di liquidità sarebbe passata dal 6,1 per cento del 2009 allo 0,8 per cento di fine giugno. Anche la politica torna a pestare i piedi: Jens Weidmann, il neopresidente della Bundesbank ha acidamente osservato che i fondi europei vengono messi a disposizione della Grecia ad un tasso (il 3,5 per cento) inferiore a quello che, sui mercati, i paesi che garantiscono gli aiuti sono chiamati a pagare per finanziarsi: è il caso dell’Italia, naturalmente, ma anche i rendimenti dei titoli francesi sono, più o meno, intorno al 3,5 per cento.
La novità è che, al centro dello scontro, c’è solo in parte il collasso finanziario greco. Nelle sue linee generali, l’architettura del salvataggio varato dal vertice europeo viene incontro ai dubbi e ai timori di molti critici, come Nouriel Roubini. L’intervento differenzia chi (come presumibilmente molte banche e attori istituzionali) detiene titoli greci, con l’intenzione di riscuoterli alla scadenza e li ha, perciò, in bilancio a valore nominale e chi, invece, li scambia sul mercato. Ai primi viene offerto di salvaguardare il valore nominale, con la sola penalizzazione di allungare, a 15 o 30 anni, la scadenza. Per i secondi, c’è un taglio del 20 per cento del valore, non troppo amaro, per chi ha comprato i titoli agli attuali prezzi stracciati. Alle condizioni offerte, non dovrebbe essere difficile ottenere l’adesione del 90 per cento degli investitori, come prevede il piano. Roubini osserva che è quanto avvenuto in altre ristrutturazioni del credito pubblico, come in Pakistan e in Uruguay. Anche una possibile tempesta dei Cds è stata evitata: la ristrutturazione – volontaria – del debito greco non farà scattare, concordano molti osservatori, il pagamento delle polizze di assicurazione contro la bancarotta di Atene: una eventualità che preoccupava soprattutto Washington, visto che il grosso dei Cds sulla Grecia è stato venduto da istituti americani. Infine, pure una probabile dichiarazione di “default selettivo” della Grecia, da parte delle agenzie di rating non dovrebbe lasciare troppe ferite. Roubini, ad esempio, sostiene che rientrerebbe dopo poche settimane.
In due parole, dunque, il collasso greco è stato, al momento, grazie anche ai finanziamenti europei, tamponato. Cos’è, allora, che continua ad agitare i mercati? «E’ probabile che la crisi prosegua» scrivono gli analisti della Royal Bank of Scotland. Il punto chiave, secondo la maggioranza degli osservatori, è che, per via degli incentivi previsti – sotto forma di pegni e garanzie, in larga misura a carico del governo greco – agli investitori che accetteranno di scambiare i vecchi titoli con i nuovi, la riduzione del debito pubblico di Atene risulta troppo bassa. Complessivamente, il debito greco verrebbe tagliato del 21 per cento, quando, ad esempio, Roubini riteneva necessario un taglio del 30-50 per cento e altri osservatori direttamente del 50 per cento. Dal 160 per cento del Pil, il debito di Atene passerebbe al 140-150 per cento, un livello che i più giudicano insostenibile, per una economia condannata, nei prossimi anni, ad una crescita asfittica. In prospettiva, dunque, l’attacco alla Grecia è destinato a continuare. Ma la debolezza dell’accordo raggiunto dai leader europei, sostengono quasi tutti i critici, è, soprattutto in quello che non dice, riguardo agli altri paesi in bilico: ancora una volta, l’Europa rischia di pagare la politica del “braccino corto”. L’accordo di giovedì scorso, è stato detto a Bruxelles, “vale per la Grecia e solo per la Grecia”. In altre parole, non è pensabile una sua replica per altri paesi sull’orlo della bancarotta, come Irlanda e Portogallo. Ma, sui mercati, quasi nessuno crede che Lisbona e Dublino possano superare le attuali difficoltà , senza una ristrutturazione del debito sulla falsariga di quella greca ed è probabile che, nelle prossime settimane, la speculazione si concentri su questi due obiettivi. A meno che non punti, fin da subito, più in alto: cioè ad Italia e Spagna. Quasi tutti i critici ritengono che i fondi a disposizione dell’European Financial Stability Facility (Efsf, il braccio creato da Bruxelles per affrontare le crisi finanziarie) siano rimasti troppo limitati. «Gli strumenti sono buoni, ma non c’è abbastanza potenza di fuoco» argomenta la Rbs. Al netto degli interventi già decisi, restano circa 300 miliardi di euro: «Troppo poco per restaurare negli investitori la fiducia che la zona euro, una volta per tutte, ha preso di petto la crisi del debito pubblico». Dietro, c’è lo spettro di una crisi italiana, la terza economia dell’area. Per questo, secondo Rbs, le disponibilità del fondo dovrebbero essere portate, almeno, a 2 mila miliardi di euro.
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