“Esilio interno per Gheddafi”: la svolta di Londra e Parigi
Solo che il deposto raìs egiziano è ammalato e provato, mentre il Colonnello è combattivo. I segnali di apertura sono abbastanza netti. Già gli Stati Uniti hanno indicato, nei giorni scorsi, questa possibilità . Poi sono arrivati i francesi. Erano i più duri, hanno tirato la volata alla guerra, ora hanno cambiato idea. E sono riusciti farla cambiare anche agli altri «irriducibili» . I britannici. Il ministro degli Esteri William Hague, dopo un incontro con il suo omologo Alain Juppé, ha affermato che «uno degli scenari» contemplati dalla diplomazia prevede che il dittatore, privato delle leve di comando, rimanga in patria. Le condizioni — per ora — sono chiare: non deve in nessun modo minacciare la vita della popolazione né destabilizzare il Paese. Sempre gli inglesi— ripetendo un concetto fatto proprio da Washington— ritengono che siano i libici a dover determinare il loro destino. L’idea era emersa all’inizio della rivolta. Ed era stato il figlio del dittatore, Saif al-Islam, a proporre un compromesso in base al quale il padre si ritirava dalla scena. Con una variante che prevedeva anche il passaggio dei poteri proprio a Saif al-Islam. Ma la sortita aveva provocato risposte negative. Da parte della coalizione e, ovviamente, degli insorti. Con il passare dei giorni— e con un conflitto che si trascina stancamente — le posizioni sono mutate. Anche il comitato dei ribelli ha attenuato il suo no. In un’intervista al Wall Street Journal, il leader Mustafa Abdul Jalil ha lanciato un segnale importante: Gheddafi e la sua famiglia possono restare, ma saremmo noi a decidere dove e come. Gli oppositori vogliono evitare che il Raìs continui a manovrare contando su quanti ancora lo seguono, specie a Sirte e nella capitale. Jalil probabilmente pensa a una sorta di esilio interno, magari nel deserto. Una ripetizione di quanto è avvenuto con il presidente egiziano Mubarak, chiuso in una residenza sorvegliata di Sharm el-Sheikh, nel Sinai. Vedremo Gheddafi piantare la sua celebre tenda nel deserto di Sabha? È presto per dirlo. Da Tripoli, sempre decisi a guadagnare tempo, affermano che prima di ogni trattativa è necessario uno stop delle incursioni aeree. E non è così scontata la reazione della «piazza» . In passato, lo stesso Jalil aveva suggerito una soluzione simile ma era stato costretto a ritirarla per le furiose proteste della gente di Bengasi. C’è poi la questione— pesante— dei crimini di guerra. La Corte internazionale dell’Aja ha ribadito ieri che l’ordine di arresto nei confronti di Gheddafi resta in vigore. Nel caso che a Tripoli si installi un nuovo governo presieduto dagli insorti sarà obbligato— in teoria— a eseguirlo. La ricerca di una strategia d’uscita negoziata non ferma le operazioni militari, anche se i progressi sul terreno sono minimi. I ribelli insistono con azioni offensive nella regione della montagna (a ovest) e con attacchi nell’area di Brega (est). Jalil ha rivelato che sono arrivati nuovi aiuti dal Qatar per le unità presenti a occidente. L’Alleanza, pur a ranghi ridotti, mantiene la pressione. Ieri il comando ha avvertito che i raid continueranno e colpiranno anche quelle installazioni civili che saranno usate dai soldati governativi. Per sottrarsi ai bombardamenti gli uomini di Gheddafi hanno spesso nascosto mezzi e munizioni in luoghi inusuali. Fabbriche, cimiteri, depositi, impianti per la produzione di cibo in scatola sono alcuni dei «siti» segnalati ieri dal comando dell’Alleanza.
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Kurdi – Foto: Archivioromanolil.blog
Lo scorso 11 luglio, il ministro degli Esteri turco, Ahmet, Davutoglu, era in Iran e pochi giorni dopo l’aviazione iraniana e quella turca hanno attaccato quasi in contemporanea diversi villaggi kurdi situati nel distretto di Sidkan, nel triangolo tra Iran, Iraq e Turchia. Secondo le informazioni giunte solo in questi giorni all’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) dalla sezione di Arbil, attiva dal 2006 e nel cui direttivo siedono rappresentanti di tutti i gruppi etnici dell’area, gli attacchi dell’artiglieria iraniana ai villaggi lungo la frontiera con il Kurdistan iracheno hanno finora provocato “tre morti tra i civili, undici feriti e centinaia di profughi e rifugiati” che per la Croce Rossa hanno raggiunto le 800 persone.