“È rom, normale che viva nella sporcizia”
BOLOGNA – Un piccolo rom senza scuola non subisce «un pregiudizio», è solo il suo «normale modo di vita». Questo, in sintesi, sostiene la Corte d’Appello di Bologna, rispondendo alla Procura dei Minori che le chiedeva di affidare una bambina ai servizi sociali per darle una vita migliore in comunità . E la decisione fa molto discutere. È giusto togliere un figlio ai genitori perché non lo mandano a scuola? E la «condizione rom» esime dal dover frequentare la scuola dell’obbligo?
La bambina in questione ha dodici anni e vive in un campo alla periferia di Parma. In prima media andava a scuola un giorno sì e due no. Sono intervenuti gli assistenti sociali, al campo c’è stata anche la Polizia municipale, che ha accertato le «pessime condizioni igieniche» in cui viveva, oltretutto con una famiglia spesso in conflitto con la giustizia. Così il procuratore dei minori Ugo Pastore, citando le norme a tutela dei diritti degli under 18, dalla convenzione di New York al codice penale, ha chiesto di allontanare la piccola dal campo. No, ha risposto il Tribunale. La sezione della Corte d’Appello, presieduta da Vincenzo De Robertis, con due giudici togati e due laici esperti, ha così confermato e motivato: «La condizione nomade e la stessa cultura di provenienza non induce a ritenere la sussistenza di elementi di pregiudizio per la minore». Non sono provati «comportamenti dei genitori che non siamo riferibili al normale modo di vita per condizione e per origine». Per la Corte, non mandare a scuola la figlia e farla vivere in condizioni igieniche precarie non rappresenta quindi un «pregiudizio» sufficiente.
«In questo modo si aumenta la marginalità e la discriminazione – sostiene Dimitris Argiropoulos, ricercatore a Scienze dell’Educazione e aderente alla Federazione Romanì che tutela i rom -. Il problema non è la cultura dei rom, ma la cultura dell’abbandono in cui sono costretti a vivere. Il problema è la povertà . Se un italiano è povero e non cura i figli si dice che è colpa della sua origine italiana?». In Emilia Romagna è sempre stata alta la sensibilità delle istituzioni per la frequenza scolastica dei piccoli «zingari». D’altra parte, quando l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati sgomberò i rom clandestini lungo il Reno, loro si difendevano così: «I nostri figli frequentano le vostre scuole». Era uno modo per integrarsi. «Questa sentenza non la capisco – dice Maria Amigoni, preside di una scuola di frontiera al quartiere Pilastro che ha accolto generazioni di rom – . Tutte le norme dicono che la scuola è un diritto di tutti. Sono andata tante volte a prendere i bambini al campo e a poco a poco la scuola è entrata a far parte della vita delle loro famiglie. Nei casi più gravi facevamo segnalazioni ai servizi». Un altro pioniere dei rom a scuola è stato l’avvocato Mario Giulio Leone, ex commissario dell’Opera Nomadi. A lui piace questo decreto «a fronte di tanti provvedimenti che recidono le radici culturali dei rom con affidamenti coattivi di minori a istituti o famiglie». Però aggiunge che «i bambini nomadi devono avere assistenza sociale ed educativa per un inserimento nella nostra contemporaneità ».
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Mi duole dirlo perché, come molti lettori di Repubblica, ritengo che gli Stati Uniti siano una grande democrazia dotata di alcune ottime istituzioni e che molti politici e intellettuali statunitensi abbiano tanto da insegnarci, a noi europei. Mi duole dirlo, ma l’uccisione di Bin Laden ha costituito una seria violazione di almeno due di tre principi etico-giuridici fondamentali.