Perché le donne in piazza vogliono la metà  di tutto

by Sergio Segio | 8 Luglio 2011 7:38

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L’onda che ha riempito le piazze il 13 febbraio scorso ha già  raggiunto Milano, che ha ora una giunta comunale con sei donne e una vicesindaco, Maria Grazia Guida, che viene dal volontariato, ma la stessa onda ha dato propulsione al referendum che ha liquidato legittimo impedimento, nucleare e tutto il resto. Nei “sì” le donne hanno pesato più dei maschi, con un 59% contro il 55% (fonte Ispo). Il cammino di questo movimento è cominciato fin da quando il gruppo iniziale mise in scena lo spettacolo “Libere”, di Cristina Comencini, che si presentava subito come l’inizio di qualche cosa di nuovo, fuori del teatro. E l’andatura si è fatta poi spedita, grazie alla determinazione di un gruppo largo di donne che guidano l’iniziativa finora senza una struttura definita di comando, ma non senza carattere e ambizioni crescenti. Si tratta del carattere di donne che intendono riscattare dignità  e potere femminile al termine di un ciclo umiliante, ma non per dare protezione con le quote rosa a una sezione “debole” della società , quanto invece per dare alla meritocrazia quel che è dovuto, levando possibilmente di torno incompetenti ambosessi per collocarci persone con titoli professionali e capacità  acclarate.
“Se non ora quando” prende di mira l’uso delle donne come carne da cannone non solo per le notti del sultano, ma anche il “tokenism”, ovvero l’impiego di femmine selezionate alle sfilate di Salsomaggiore come “token”, gettoni, segnaposto che stanno a dire che “la donna c’è” al governo, anche se si muove con andatura ambigua, un po’ da ministro che dichiara cose importanti, “da uomini”, e un po’ da donna del capo, che parla solo se interpellata. Simboli illusori, specchietti per le allodole: il token/alibi, come ha scritto Chiara Volpato, ha una funzione precisa: salvaguardare lo status quo, togliendo forza alle voci di protesta in situazioni di forte squilibrio nei rapporti di potere.
Quant’era fiero Berlusconi di leggere la lista delle ministre “con la laurea” – pensate! Era la prova che non sono solo belle, anche brave! – , ma non è soltanto la “bella presenza” al governo e neanche soltanto l’harem di Arcore e Palazzo Grazioli a produrre indignazione. La caldaia era arrivata già  a una pressione molto pericolosa per il Cavaliere (e l’esito degli scontri in tv con la Bindi avrebbero dovuto metterlo in guardia), ma a provocare l’esplosione è stata la congiunzione di questi comportamenti con un’economia e una società  in cui per le donne “non c’è niente”, per usare la sintesi della Comencini. I dati Istat (direttrice centrale una donna, Linda Laura Sabbadini) confermano la mesta condizione italiana nell’Europa dei 27: la media del tasso di occupazione femminile è oltre il 58%, l’Italia è al 46% con un catastrofico 30% nel Meridione. Ottocentomila donne sono state licenziate o costrette dall’azienda a lasciare il lavoro per una gravidanza e non l’hanno più recuperato. È in questo cronico contesto di oppressione materiale e psicologica che è andata in scena la vicenda della nipote di Mubarak.
La conseguenza è che, da una parte, il tasso di consenso verso il governo in questi ultimi anni è precipitato ed è cresciuto il risentimento della società  italiana verso il primo ministro, mentre dall’altra non è cresciuto in misura equivalente il consenso per l’opposizione. Questa condizione contraddittoria ha generato una sensazione di generale impotenza e ha spinto molte donne italiane, impegnate qui e all’estero, con rilevanti posizioni nel mondo scientifico e accademico, nelle professioni, nei sindacati, nello spettacolo ad abbandonare un certo distacco e a riprendere interesse per la politica italiana. Questo spazio politico senza risposte è un vacuum che si può e si deve riempire. È questo il motore del gruppo dirigente di “Se non ora quando”. Ha raccontato la linguista Fabrizia Giuliani che il giorno in cui, in un convegno a Utrecht, ha sentito una relazione che proponeva in parallelo i casi delle donne talebane e di quelle italiane e ha notato che nessuno reagiva più con stupore, ha deciso che bisognava finalmente trovare il modo di dire “basta”.
Le donne di questo nascente movimento hanno in comune la caratteristica della prudenza, hanno visto troppe illusioni svanire. Ma hanno ambizioni. Questo spiega una certa virtuosa incompiutezza del disegno politico, che dovrà  precisarsi trovando le vie di un accesso alla politica che aggiri le insidie. Non hanno intenzione di farsi catalogare come l’annesso di qualcuna delle correnti o dei leader della sinistra e del centrosinistra in servizio o in disarmo. Nei loro forum i vecchi nomi sono diventati pressoché impronunciabili, non per timidezza, ma per la conoscenza che hanno della giungla paludosa da attraversare. Sanno anche che anche il tono delle critiche a Berlusconi rischia di essere decodificato e degradato a banale etichetta di una corrente contro le altre. Forse riusciranno anche a portare parole nuove per un discorso pubblico dissanguato. Come spiegano chiaramente, non vogliono il ministero delle Pari opportunità , ma l’Economia, gli Interni e la Difesa, e anche il Primo ministro se non il Quirinale, dopo Napolitano. Non vogliono quote, ma “la metà  di tutto”. E forse qualcosa di più. Non si metteranno “sulla scia” di questo o di quello. Intendono iniziare una “nuova scia”.

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