Pd, caos modello Tedesco

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 ROMA. Ci ha messo meno di un giorno Alberto Tedesco, il senatore che per chiedere il sì al suo arresto aveva usato parole «sobrie e dignitose» – così Anna Finocchiaro al Senato – a trasformarsi in una polpetta avvelenata per il Pd. Ieri il «senatore» salvato da Palazzo Madama ha attaccato Rosy Bindi dalle colonne del Corriere della sera e della Repubblica, e con lei Antonio Di Pietro e Deborah Serracchiani, che gli hanno chiesto di dimettersi da senatore. In aula in realtà  c’erano stati i cori del centrodestra, rintuzzati dai democratici. Ma quella stessa sera Bersani aveva ammesso la difficoltà : «Vedremo le sue riflessioni».

Insomma, le dimissioni il Pd le auspicava, persino un po se le aspettava, non avendo messo a fuoco l’uomo. Che invece ieri, smessi i panni dell’imputato politicamente corretto si è levato qualche sassetto dalla scarpa: Di Pietro «dovrebbe chiedere prima le dimissioni di un bel po’», Bindi «si dimetta lei», «chieda le dimissioni al parlamentare più assenteista del mondo, Gaglione, che lei ha costretto il Pd a eleggere in Puglia», Serracchiani – in questi giorni impegnata con Peppe Civati nel campeggio degli ex rottamatori che non a caso lancerà  il regolamento delle primarie per i deputati – «giustizialista, un clone della Bindi». Un colpo basso per il partito, che per tutto ieri ha difeso la presidente dell’assemblea. E per Finocchiaro che – pur avendo votato il sì all’arresto – martedì subito dopo il voto aveva abbracciato il senatore pugliese coram populo nel corridoio del Transatlantico. Ieri invece la capogruppo ha messo le distanze: «Al senatore Tedesco, che da mesi non appartiene più al gruppo Pd, suggerirei maggiore sobrietà  e discrezione. Il tema delle sue dimissioni è questione che riguarda la sua coscienza. Ma lo inviterei a maggior rispetto nei confronti del Pd e dei suoi dirigenti».
Brutto risveglio per il Pd, nel day after del caso Tedesco. Per Bersani «è corretto che faccia un passo indietro chi è indagato e ricopre un incarico, per non coinvolgere le istituzioni». Pensa a Tedesco certo. Ma al centro delle sue preoccupazioni c’è Filippo Penati, tutto un altro altro calibro di dirigente politico, migliorista, già  presidente della provincia di Milano, uomo chiave delle cooperative rosse, un cursus honorum lungo così, persino punto di riferimento per il dialogo con la Compagnia delle opere in Lombardia, un gioiellino di rapporti che Bersani ha curato sempre in prima persona. Penati è stato il suo ex capo della segreteria fino al novembre 2010, incarico che ha lasciato senza chiasso all’indomani della sconfitta del candidato Pd alle primarie, Boeri. Per tornare nella sua Milano, commissariare di fatto il partito, evitarne l’implosione, e clamorosamente riuscendo a indirizzarlo fino all’ottimo risultato delle comunali.
Ieri Penati ha annunciato un passo indietro, «l’autosospensione» dalla vicepresidenza del consiglio regionale lombardo di cui è membro. I media hanno hanno riferito delle sue dimissioni: ma non lo sono.
Del resto dal Pd fanno notare che non c’è equivalenza fra Tedesco e Penati, che l’inchiesta pugliese è chiusa e quella milanese è alle prime battute. Per ora il posto di vicepresidente resta congelato, in attesa che si capisca dove vanno a parare i pm. E poi se si dimettesse, in quel caso sì che ci sarebbe una replica del caso Tedesco: il Pdl lombardo voterebbe contro. Ma la coincidenza non è sfuggita allo stesso Tedesco che ieri sera, rincarando la dose di attacchi al Pd, si è chiesto: «Ma a me chiedono le dimissioni e a lui no? Dia il buon esempio e si dimetta. E poi diciamo anche che lui è accusato per tangenti, la mia invece è una questione di direttori sanitari e primari. Io non ho preso mazzette, sono intervenuto su un funzionario, è diverso».


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