Ordini e professioni, quando il merito dipende da famiglia e area geografica

by Sergio Segio | 4 Luglio 2011 6:30

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Aspiranti commercialisti catanesi, stappate lo spumante: sotto l’Etna non bocciano nessuno. Lo dice uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sugli Ordini professionali. Che pare dimostrare quanto scriveva Indro Montanelli: così come sono servono solo a «difendere le mafie di interessi corporativi» . Un’accusa che gli Ordini respingono sdegnosamente da anni. Ma contro la quale, come dimostra la riluttanza con cui molti hanno collaborato a questo studio sul familismo, che è durato tre anni e sarà  presentato oggi pomeriggio alla Bocconi col titolo «Dinastie professionali» , non fanno poi molto.
Basti dire che alla richiesta dei ricercatori della Fondazione (Gaetano Basso, Andrea Catania, Giovanna Labartino, Davide Malacrino e Paola Monti) coordinati da Michele Pellizzari, docente alla Bocconi, l’Ordine dei medici ha risposto di no, spiacenti ma «pur apprezzando le finalità  della ricerca» l’elenco completo degli iscritti in suo possesso non lo dava: lo chiedessero uno a uno a tutti i centodieci ordini provinciali. Auguri.
Che gli Ordini professionali italiani siano bloccati e debbano essere spalancati alla concorrenza l’Europa lo dice da anni. Ma la risposta è da sempre recalcitrante. Rileggiamo cosa disse, ad esempio, quando era ministro della Giustizia, l’ingegner Roberto Castelli: «La Commissione europea e l’Antitrust vorrebbero abolire gli ordini; noi invece siamo impegnati a difenderli perché pensiamo che gli ordini e tutto il ricco mondo delle professioni siano un patrimonio fondamentale della nostra società » .
Opinione condivisa, nonostante i proclami thatcheriani («Gli elettori devono scegliere tra liberismo e comunismo, liberismo e statalismo» ), da Silvio Berlusconi: «Pensiamo che il sistema degli albi professionali regolato per legge sia molto meglio del sistema delle libere associazioni di professionisti presenti nei Paesi anglosassoni» . Questione di voti: «Rappresentiamo una massa di 3 milioni e 590.000 persone» , intimò anni fa ai partiti il Cup, Coordinamento unitario delle libere professioni. Traduzione: chi ci tocca perde le elezioni.
Perfino le innovazioni della legge Bersani del 2006 (via le tariffe minime e largo alla pubblicità  comparativa per fare spazio ai giovani…) sono state accanitamente combattute e svuotate nonostante uno studio di Michele Pellizzari e Giovanni Pica (Università  di Salerno) presentato al convegno bocconiano dimostri che prima del 2006 tra gli avvocati «la probabilità  di lasciare la professione diminuiva con la produttività , ovvero lasciavano i più bravi. Dopo il 2006, questa relazione si inverte e sono i meno produttivi a lasciare la professione» . Un miglioramento qualitativo che evidentemente non interessa più di tanto i consoli e proconsoli della categoria, che siedono in massa alle Camere (134 avvocati su 952 parlamentari) e monopolizzano i consigli dell’Ordine al contrario di quanto accade ad esempio in Gran Bretagna dove ai vertici stanno dei rappresentanti anche degli studenti e più ancora dei consumatori, cioè dei clienti. Una situazione che il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà  ha più volte denunciato parlando di «ingiustificati privilegi ai professionisti» e accusando gli ordini di essere «chiusi in se stessi» e di non fare «gli interessi dei consumatori» . Per capirci, è più facile staccare in salita Alberto Contador sulle rampe del Puy de Dome che aprire le professioni ai giovani se gli Ordini, come ha scritto Tito Boeri, «continuano ad inserire nelle commissioni d’esame (quelle che decidono chi si può iscrivere agli albi) persone che esercitano queste attività  e che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti di loro» . Questo è il quadro. Confermato dai dati dello studio presentato oggi alla presenza di Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani, dove si dimostra come «la probabilità  di superare l’esame non dipenda esclusivamente dalle qualità  del candidato» ma anche da altro. La decantata valorizzazione del «merito» , parola abusatissima (Mariastella Gelmini la invocò 37 volte in una proposta di legge), dipende insomma dall’area geografica: se sei un giovane architetto e fai l’esame a Bari hai 74 probabilità  su 100 di passare, se lo fai a Palermo 18. Se sei un giovane geologo hai il 91%di possibilità  di farcela a Napoli, il 36 a Bari. E così via.
Sbalzi così clamorosi da imporre una alternativa: o tutti i geni di una determinata professione nascono in una zona e tutti somari in un’altra o i voti non dipendono dalla bravura dei candidati ma dal capriccio e dalle chiusure delle commissioni. Succedeva lo stesso, una volta, anche con l’esame degli avvocati. Col record, un anno, del 94%di bocciati a Milano e del 94%di promossi a Catanzaro. Finché, dopo lo scandalo scoppiato nel capoluogo calabrese (2.295 temi copiati su 2.301) fu deciso di far esaminare i temi di ogni distretto giudiziario alla commissione di un altro. Ed è cambiato tutto. Bene, incrociando i nomi degli iscritti agli 11 Ordini (notai, avvocati, architetti, farmacisti, commercialisti, consulenti del lavoro, giornalisti, geologi, medici, ostetriche e psicologi) dei quali i ricercatori sono riusciti a raccogliere la quasi totalità  degli iscritti, salta fuori una quota altissima di familismo.
Messi a confronto con i lavoratori autonomi, gli avvocati e i farmacisti figli o nipoti di avvocati e farmacisti sono oltre il triplo della media. I medici addirittura il quadruplo. Non sempre questa ereditarietà , si capisce, è negativa: talora «un bravo professionista insegna il mestiere al figlio, che diventa a sua volta un bravo professionista» . Dati alla mano, è il caso delle ostetriche. E, spesso, anche dei medici. Non così di altri: nel caso dei commercialisti e dei consulenti del lavoro, si legge nel dossier, «troviamo evidenza, statisticamente significativa e robusta, di peggior qualità  dei servizi professionali (..) dove il livello di familismo è più alto» . Cioè? «Nelle province dove le omonimie incidono maggiormente sulle iscrizioni all’albo dei commercialisti, l’evasione fiscale è più alta» .
Quanto alle aree dove il familismo è più diffuso, non mancano le sorprese. I numeri dicono infatti che certo, lo spazio ai figli e ai nipoti, ai cognati e ai cugini nel Sud è nettamente maggiore rispetto al Centro e più che doppio rispetto al Nord-ovest. Ma al Nord-est, no: anzi, la «parentopoli» nelle professioni, per difendere le posizioni di rendita, è perfino più estesa che nelle regioni meridionali della fascia adriatica. Ahi ahi, la «razza Piave» …

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