by Sergio Segio | 27 Luglio 2011 7:53
Su di lui, aggravata da questa crisi globale della economia e della finanza, pesa la maledizione del terzo anno che colpisce quasi ogni presidente americano. Ne furono vittime Reagan, Bush il Vecchio, Clinton e tragicamente John F. Kennedy, assassinato proprio nel suo terzo anno di presidenza. È il momento nel quale le lune di miele sono inacidite da tempo, il Parlamento ha cambiato spesso segno politico nelle elezioni di metà mandato, le promesse sono sfiorite nella realtà quotidiana e la novità del personaggio, dunque il suo carisma, si è consumata, mentre incombe già la campagna elettorale per la rielezione.
Ma se le discordie e le risse sono più la normalità che l’eccezione nella capitale dell’ormai “Impero Fragile”, anche quando non raggiungono gli eccessi ideologici di gruppi come il “Partito del Tè”, nessuno dei predecessori di Obama si era mai dovuto misurare con la possibilità di vedere a rischio la credibilità finanziaria della prima potenza economica mondiale.
Per questo, l’appello a sorpresa lanciato lunedì sera alla nazione in “prime time”, in prima serata, e il nuovo annuncio di “veto” alla soluzione proposta dai repubblicani, erano stati pensati per essere segnali di leadership forte. Ma lasciano invece il senso di una crescente disperazione. Il “Default” del debito sarebbe il “Default” di Obama.
Un “inghippo”, una “quadra” per fermare il dollaro e l’America sulla soglia del precipizio saranno trovati, come promettono anche gli avversari di Obama che sanno di giocare alla roulette russa con la vita dei cittadini sotto gli occhi del mondo e come sembra pensare il 65% degli operatori finanziari che non credono all’Apocalisse annunciata troppe volte dallo stesso presidente. Ma il dramma politico che è stato creato, artificialmente e scientemente dall’opposizione, attorno a un evento di routine come l’innalzamento del tetto del debito, che il Congresso aveva sempre votato (diciotto volte soltanto sotto Reagan, sette con Bush Primo alla Casa Bianca) senza un gemito, sopravviverà alla sua temporanea soluzione. Lascerà tutti i dubbi e le delusioni e le domande sulla qualità e la natura della presidenza Obama.
Anche nell’occasione di questo duello con la maggioranza repubblicana e con il nocciolo radioattivo del “Tea Party”, si è faticato a intravvedere chi sia, che cosa voglia, come intenda muoversi oggi e in futuro il presidente. Grande innovatore un giorno (“Change!” cambiamento, esclamava il suo slogan) e cauto continuatore delle politiche del predecessore Bush il giorno dopo, riformista al mattino con magnifici programmi per la sanità nazionale e doroteo alla sera nella istintiva ricerca del compromesso pasticciato al ribasso, Obama è riuscito ad apparire sempre troppo ideologicamente rigido agli occhi di chi lo detestava e sempre troppo accomodante, agli occhi di chi lo adorava. È sembrato un Kennedy nero nella retorica, poi un Clinton nell’astuzia manovriera, poi un Carter buonista nel discorso del Cairo, poi un Bush bellicista nella guerra fino all’esecuzione di Bin Laden. E lunedì sera ha tentato una nuova reincarnazione, lanciando un appello sopra la testa del Parlamento riottoso direttamente al popolo americano perché si mobiliti, che era la formula cara a Ronald Reagan, costretto sempre a vedersela con un Congresso ostile.
Nei giorni della discussione sul compromesso per il debito, le tasse, i tagli, è passato dalla pazienza di Giobbe richiesta sempre a ogni capo di un governo democratico a scatti di collera, uscite di scena sbattendo la porta, brusche convocazioni nel suo ufficio dei leader parlamentari e altrettanto brusche dismissioni, che hanno fatto parlare di “tantrum”, di capricci da bambino, un commentatore esperto e moderato come George Will sul Washington Post. Il suo addolorato stupore di fronte all’ostinazione della potente minoranza del “Tea Party”, i deputati di destra eletti con il solenne giuramento di non aumentare neppure una tassa e di tagliare le spese pubbliche, oggi la coda che muove il cane dell’opposizione, ha lasciato perplessi molti.
Come se un presidente, un politico di professione, un avvocato con titoli brillanti, non avesse capito che «gli estremisti fanno gli estremisti, è il loro mestiere, come nella parabola della rana e dello scorpione» dice David Gergen, navigatore anziano di molte amministrazioni.
Obama è, dopo tre anni, prigioniero della propria immagine. Vive nel limbo fra la entusiasmante novità rivoluzionaria della propria persona e la banalità deprimente della propria amministrazione. È un’illusione, quella di pensare che la persona corrisponda all’azione, ma è l’illusione sulla quale si vincono le elezioni, nella quale, a loro rischio e pericolo, spesso cadono anche coloro che la creano.
Eppure avrebbe dovuto sapere, proprio lui, che nella propria vita è sempre stato l’uomo dei compromessi e della mediazione, che per mediare, e produrre un compromesso, occorre essere in due. È stato dunque “ingenuo”, un’accusa pesante, scrivono i media, peggio “arrogante”, attacca il Wall Street Journal di Murdoch, ha messo in evidenza il difetto che già si era intuito in campagna elettorale: la convinzione che la giustezza delle proprie tesi debba per forza prevalere nel dibattito e che gli avversari siano prima o poi costretti a riconoscere la validità dei suoi argomenti.
«Come possiamo chiedere sacrifici a chi ha meno per sanare i nostri conti, mentre non chiediamo nulla a chi ha di più?» si è domandato nel suo appello alla nazione, citando, appunto, Reagan, la sua ultima metamorfosi. Sembra ovvio, sembra logico, sembra giusto e lo è, dire che nel momento in cui si chiede agli anziani, ai più poveri, ai propri elettori di rinunciare a qualche frammento della propria esistenza per salvare la patria, chi guadagna oltre 250 mila dollari, i finanzieri milionari degli “hedge funds” speculativi che pagano aliquote fiscali più basse delle loro segretarie o il Big Oil che sta accumulando profitti mostruosi debbano gettare una “chip” nel piatto. Ma l’ovvio, la logica e la giustizia non hanno mai abbastanza voti in un Parlamento dove trionfa la legge della sopravvivenza elettorale e della purezza ideologica.
Il 4 agosto prossimo sarà il giorno del suo cinquantesimo compleanno, che avrebbe voluto certamente celebrare in maniera molto diversa da quella che lo aspetta. “L’inghippo” tecnico per evitare all’America l’umiliazione del D-Day, del Default Day, o anche del primo abbassamento del voto di fiducia, il rating, da parte delle agenzie di analisi come la Standard & Poor’s che ogni giorno la Casa Bianca chiama per scongiurarla a resistere, da quella Tripla A sempre avuta nella storia a una Doppia A, sarà probabilmente trovato. Ma la soluzione temporanea sarà costruita, se non contro di lui, senza di lui, garantendo che il prossimo anno, sulla strada delle elezioni, lo stesso problema, le stesse trappole gli saranno ripresentate. In attesa che Obama, e nessun altro, riesca a rispondere alla domanda chiave del terzo anno: chi è, davvero, Barack Obama?
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