Non solo deficit, l’America spaventata dai senza lavoro
È molto più di un malessere quello che in questi giorni corre sui mercati finanziari internazionali. Certo, la Grecia. Certo, i rischi americani di default. E quindi l’euro e il dollaro, Frau Merkel e Mister Obama. Ma c’è una parola sempre difficile e sgradevole da pronunciare che è tornata sulle labbra di economisti e investitori: recessione. Meglio: la seconda recessione dallo scoppio della crisi finanziaria nell’autunno 2008: il double dip, cioè la ricaduta, la famigerata W, che vuole dire diminuzione del Prodotto interno lordo, sua risalita che illude e nuovo crollo dell’attività economica.
I sussurri di sottofondo fanno di nuovo il parallelo con la Grande depressione degli anni Trenta che sembrava scongiurata ma forse non lo è. Il cuore delle preoccupazioni è il centro dell’impero, l’economia americana. Tre giorni fa, uno degli economisti più influenti degli Stati Uniti, Martin Feldstein, ha detto al Corriere che la possibilità di una nuova recessione Usa è salita a suo parere al 50%e potrebbe crescere nei prossimi mesi. L’analisi di Feldstein— — che molti condividono, sia tra gli studiosi di cicli economici sia sui mercati — parte dal nuovo aumento della disoccupazione americana, che sembrava scendere (a marzo aveva toccato l’ 8,8%) e invece è tornata a salire, in giugno al 9,2%, che è il doppio di quanto era nel 2007, prima della crisi finanziaria. Secondo i suoi calcoli, addirittura, se ai disoccupati ufficiali delle statistiche si aggiungono tre milioni di senza lavoro che non sono conteggiati perché non hanno cercato un posto nell’ultimo mese, e se si aggiungono nove milioni di addetti part time che vorrebbero invece un impiego a tempo pieno, «abbiamo 29 milioni di americani che non possono trovare il lavoro a tempo pieno che vogliono» .
Drammatico, per un Paese che da decenni non è abituato a fare i conti con la disoccupazione. È che le imprese e le famiglie non investono e non spendono. Ieri, Scott Davis— l’amministratore delegato di una delle imprese più sensibili all’andamento del ciclo, Ups — ha sostenuto che l’economia americana è debole a causa dell’aumento della disoccupazione e del rallentamento della domanda proveniente dalla Cina (le economie asiatiche rallentano). E molte imprese americane stanno annunciando licenziamenti: ieri, per dire, Rim (il produttore dei Blackberry) ha fatto sapere che taglierà duemila posti e anche le banche di Wall Street sono entrate in una nuova fase di ristrutturazioni con perdite di posti di lavoro.
Il risultato di queste tendenze è che l’economia americana è sì salita dell’ 1,8%nel primo trimestre, ma in gran parte (per l’ 1,2%) solo grazie alla ricostituzione delle scorte, non per la forza della domanda interna o esterna (a fine 2010 saliva di oltre il 3%). Da qui i pericoli che i prossimi mesi indichino l’arrivo del double dip. Se si guarda ai numeri, non siamo vicini alla Grande depressione americana degli anni Trenta. Allora, la prima recessione fu lunghissima, dall’agosto 1929 al marzo 1933, con un crollo del Pil del 36%in termini reali (dati del National Bureau of Economic Research) e la seconda, dal maggio 1937 al giugno 1938, vide un’altra caduta della produzione reale del 6%. La disoccupazione toccò un picco del 25%nel 1933 e scese sotto il 10%solo nel 1941, praticamente in economia di guerra.
Oggi, i numeri sono molto diversi e l’esperienza che da allora hanno accumulato gli analisti dell’economia e i responsabili delle politiche finanziarie è enorme. Ciò nonostante, gli errori che si possono fare si presentano sempre con una faccia nuova e anche questa volta potrebbero creare disastri: da qui il nervosismo strutturale dei mercati. A inizio giugno, il presidente Barack Obama disse alla cancelliera tedesca Angela Merkel che un fallimento della Grecia avrebbe messo in pericolo l’economia americana e l’avrebbe mandata di nuovo in recessione. E con essa l’economia del mondo. Per il momento, attorno ad Atene i governi dell’Eurozona hanno messo una cintura di sicurezza, che per un po’ forse funzionerà ma non risolve il problema della crescita economica greca. Resta invece aperta la questione del possibile default americano: anche in questo caso un problema politico, prima che finanziario, che potrebbe creare crolli sui mercati. E in America come in Europa (e in Italia) la questione chiave è come rilanciare la crescita di economie avanzate.
La domanda che in fondo sottostà allo scontro tra Obama e Repubblicani riguarda infatti il modo di ridare forza all’economia degli Stati Uniti. Favorendo una certa spesa pubblica e aumentando certe tasse, secondo i democratici e la Casa Bianca. Togliendo alle imprese e alle famiglie la paura dell’esplosione del debito pubblico e dell’aumento delle tasse, secondo i conservatori (e secondo i sostenitori del modello tedesco fondato su un deficit pubblico basso per dare fiducia a chi deve investire). In tutto l’Occidente, insomma, il problema dei problemi è lo stesso: la crescita che non c’è.
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