Nomadi in condominio

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Periferia “popolare” per eccellenza, il Pilastro dalla fine degli anni ’90 ad oggi è il quartiere di Bologna dove si è trasferita la maggior parte delle famiglie rom, molte delle quali provenienti dai paesi dell’ex Jugoslavia, che dai campi nomadi e dalle strutture d’accoglienza sono riuscite a diventare assegnatarie di un alloggio pubblico. Un tempo campagna costellata di baraccopoli alle porte del capoluogo emiliano, negli anni, il Pilastro ha accolto nelle sue case popolari generazioni di migranti: fino alla seconda metà  del secolo scorso italiani, oggi marocchini, pachistani, romeni.
In un prato ritagliato tra le alte palazzine dalle pareti scolorite dal tempo incontriamo un gruppo di donne che si godono una domenica pomeriggio di sole circondate da una manciata di bambini che giocano. Non molto lontano, un gruppo di uomini chiacchiera fuori da un bar, gestito da una famiglia cinese, di cui sono clienti abituali. Fadil è tra loro e con un sorriso compiaciuto racconta a tutti la notizia che suo figlio, non ancora maggiorenne, è appena diventato padre. «Di un bel maschio», dice.
Malpagati e precari
Mona ci invita a entrare nel suo appartamento. La sala all’ingresso è ampia e luminosa, perfettamente in ordine, con cuscini ricamati sui divani e un enorme tappeto color panna al centro. Mona lavora ormai da qualche anno come donna delle pulizie per una cooperativa che fornisce servizi agli alberghi di Bologna. Come ci spiega Selvaggia Tibiletti, ex operatrice dell’Ufficio immigrazione e territorio di San Donato, che ci ha accompagnato nel viaggio all’interno del Pilastro «Mona è una delle poche donne che lavora e contribuisce, così, al mantenimento economico della famiglia». Qui «sono soprattutto gli uomini ad avere un impiego come facchini, addetti mensa, operai, meccanici, traslocatori. Spesso malpagati, quasi sempre precari».
Mona vorrebbe che anche la nipote riuscisse a mantenere stabilmente il posto di lavoro, come lei. «Non è facile trovare un impiego se sei rom. Soprattutto in un momento di crisi» ci racconta. «È quasi impossibile, poi, se si abbandonano le scuole superiori prima di averle terminate». Mona non lo dice ma la sua preoccupazione è che la nipote, non ancora maggiorenne, pensi al matrimonio, non di rado “combinato” tra famiglie alla maniera tradizionale. Come la sorridente Halima, 22 anni, incinta all’ottavo mese del suo terzo bambino. «Attualmente al Pilastro vivono poco meno di una settantina di nuclei familiari rom, anche se gli appartamenti assegnati sono circa cinquanta – spiega Emanuele Montagna, operatore dell’Ufficio immigrazione e territorio del quartiere San Donato -. I figli si sposano e le famiglie si allargano».
Così negli appartamenti, in attesa di nuovi alloggi popolari, si può arrivare a vivere anche in venti. «Questo può creare qualche difficoltà  nei rapporti con il vicinato, ma molti meno di quanto se ne possa immaginare – racconta Selvaggia – e poi a distanza di anni possiamo dire che vivere nelle case ha comportato un significativo passo verso l’integrazione rispetto al campo».
Molti di loro provengono dai paesi dell’ex Jugoslavia, «dove non svolgevano una vita nomade» specifica Emanuele, e in Italia hanno vissuto per anni nel campo nomadi di Santa Caterina, a pochi passi dal Pilastro, che chiuse i battenti nel 2002, qualche mese dopo la tragedia che vide la morte di due bambini, Amanda e Alex, nelle fiamme che distrussero la roulotte dove dormivano. Ancora oggi, al solo nominarla, questo ricordo asciuga le parole di bocca agli ex abitanti dell’insediamento. La morte di Amanda e Alex fu un duro colpo anche per l’amministrazione locale che decise di accelerare il trasferimento, iniziato con un piano ad hoc per il quartiere San Donato nel 1996, delle famiglie rom nelle case popolari per arrivare a chiudere il campo in pochi mesi. «Un’operazione ben riuscita ma che purtroppo non divenne prassi per l’amministrazione» racconta Emanuele. «Quelli erano anni in cui venivano stanziati molti più finanziamenti per il sociale, anni in cui queste politiche non costituivano una parte residuale della spesa pubblica come oggi». Quando si trasferirono le famiglie rom la popolazione del Pilastro insorse. Nato dalla costruzione, con diversi progetti nel tempo, di alloggi popolari destinati alle persone che vivevano ai margini dell’area urbana, il Pilastro è sempre stato considerato dalla politica un quartiere in cui concentrare la fascia più povera della popolazione. «Per questo in molti si opposero, pensando al rischio di essere ghettizzati per l’ennesima volta».
Tutti i bambini a scuola
Uno dei terreni di scontro fu la scuola: quando aumentarono le iscrizioni di bambini rom nelle scuole del quartiere tanti genitori italiani decisero di ritirare i propri figli, sbilanciando la composizione delle classi e «rallentando così il cammino verso l’integrazione, costruito nel tempo anche grazie al nostro lavoro costante» racconta Selvaggia. Oggi tutti i bambini vanno a scuola «anche se i progetti per l’integrazione sono diminuiti nel tempo e questo non gioca certo a loro favore». Basti pensare che fino al 2007 veniva garantito un pasto a tutti gli studenti che pagavano un forfait mensile «ma dal 2008 il sistema Equitalia ha fatto sì che i figli dei genitori inadempienti non possano più mangiare in mensa. Un provvedimento che favorisce la dispersione scolastica pomeridiana e che colpisce le famiglie più povere, quelle che invece andrebbero più tutelate. Con le famiglie di rom e migranti a primeggiare in questa triste classifica» racconta Selvaggia non dimenticando, però, come la crisi economica stia accomunando sempre di più le condizioni dei migranti a quelle degli italiani. Una considerazione condivisa anche da Emanuele: «Se fino al 2008 la morosità  delle famiglie rom era più alta di quella delle altre famiglie migranti, oggi le differenze economiche si sono appianate per “merito” della crisi». Il tutto sempre più a scapito dell’integrazione sociale.


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