NO TAV. Il «tutti a casa» del Pd

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C’è da non crederci. Ad essere in discussione non è il dissenso politico o il modo in cui esso si manifesta, ma la stessa idea di partecipazione, vista con fastidio e irritazione. Ai sindaci, infatti, si chiede non già  di ascoltare i propri cittadini e di confrontarsi con loro ma di diramare un burocratico «tutti a casa, possibilmente con le porte sbarrate!».
«Ma – si risponde – noi diciamo di no perché lì ci sono i violenti e non vogliamo confonderci con loro». È una affermazione tanto suggestiva quanto inadeguata. È, infatti, proprio con atteggiamenti di questo tipo che si favorisce la logica dello scontro violento. Il processo in atto in Val Susa è molto semplice. C’è un popolo – inizialmente radicato nella valle, oggi sempre più diffuso sull’intero territorio nazionale – che da anni chiede inutilmente di essere ascoltato (un popolo a cui ancora ieri hanno dato voce, con una lettera al capo dello Stato, oltre 200 docenti universitari). Ciò pone una domanda non eludibile: gli abitanti del territorio interessato alla più grande opera della storia dello Stato unitario (e, con loro, i cittadini dell’intero paese) hanno oppure no il diritto di interloquire? Ripeto: diritto di interloquire, non di porre veti (come viene detto falsando la realtà ); diritto di essere ascoltati, di discutere, di confrontare argomenti, analisi, proposte, in modo pubblico e trasparente. Questa è la vera questione (una questione cruciale di democrazia e di partecipazione), che dovrebbe stare a cuore a tutti e che il popolo No Tav continua opportunamente a tenere aperta.
Ebbene, quasi sei anni fa (il 30 novembre 2005) Luciano Gallino scriveva su Repubblica: «Nel caso della Val di Susa, in quanto tendenziale pro Tav, sono rimasto – almeno fino ad ora – alquanto deluso. Mi attendevo che i politici, gli amministratori, i dirigenti d’impresa, gli esperti rispondessero con argomenti circostanziati alle perplessità  di ordine tecnico ed economico sollevate da varie parti sulla grande opera che dovrebbe attraversare, per il lungo, tutta la valle. Ora, gli argomenti pro Tav in Val di Susa avanzati negli ultimi mesi mi paiono rientrare prevalentemente nella categoria “ce lo chiede l’Europa”, ovvero “non si può bloccare il progresso”, o, ancora, “non si può cedere alla demagogia”. Un po’ poco, per uno che è sì pro Tav, ma che vorrebbe vedere la sua causa difesa con ragioni compiutamente argomentate». La conclusione di Gallino era conseguente e interpellava chi si stava candidando al governo del Paese: «la questione è diventata per intero politica. La sostanza è sempre la stessa: si tratta di distribuire con equità  i costi e i benefici tra le popolazioni, gli strati sociali e i territori coinvolti in innovazioni radicali. Nella vicenda della Val di Susa parrebbe, al momento, che i costi gravino prevalentemente su una parte sola. Vorremmo capire come Prodi pensa di ridurre tale squilibrio, o magari se non medita di impostare uno scenario affatto inedito, che preveda più benefici che costi per tutti gli interessati».
Domande ragionevoli: di evidente buon senso, verrebbe da dire. Domande a cui non si è mai risposto ché tutti i tavoli, le commissioni, gli osservatorà® aperti negli anni sono stati finalizzati a discutere sul come realizzare l’opera e non anche sul se la si deve realizzare. Oggi poi questo paternalismo spocchioso («lasciate decidere a noi, professionisti della politica e dell’economica, che abbiamo esperienza e capacità ; voi, se proprio volete, protestate ma non troppo») subisce una nuova impennata che cerca di eliminare anche la protesta. Scelta miope e sbagliata (come ha dimostrato la recente mobilitazione referendaria), ma anche pericolosa. I problemi politici si risolvono con la politica. Trasformarli in questioni di ordine pubblico può portare – ha già  portato – a scontri e feriti. È troppo comodo cercarne le responsabilità  (solo) nel frammento finale senza analizzare il processo che ha portato a questo esito.


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