by Sergio Segio | 16 Luglio 2011 7:59
I quasi poveri sono il 7,6 per cento. Più di 8 milioni i primi. Quasi 3 milioni i secondi. Quanto ai “poveri-poveri” – quelli che non hanno il minimo per vivere, quelli poveri da morire e infatti muoiono, o sopravvivono come topi di discarica – sono 3 milioni e 129 mila persone. Poi ci sono quelli a rischio di povertà . Nel complesso, circa un quinto della popolazione. Gli altri stanno tutti bene, grazie.
Ora, l’osservazione è: 11 milioni di poveri, e in particolare 3 milioni e 129 mila persone che si trovano al di sotto della soglia “minima necessaria” per “una vita minimamente accettabile”, non sono una causa sufficiente, e anzi urgente, per varare una manovra economica da votare entro la prossima settimana? Non lo sono, evidentemente. Solo a dirlo, come ho appena fatto, si passa per buontemponi. La povertà non è un vincolo, né interno né esterno, per nessuno. La politica, che ha subìto un’umiliante sospensione a tempo indeterminato per eccesso di ribasso, con ciò certificando – sia pure con varie quote di responsabilità – la propria peculiare bancarotta, non sente né immagina di essere chiamata in causa dall’incidente di milioni di default registrati da tempo, su altrettante persone al di sotto della stessa insolvenza, perché i poveri poveri non hanno nemmeno uno straccio di debito. L’Istat, che ne certifica insieme l’esistenza e l’impossibilità dell’esistenza, è un’agenzia di rating della povertà da cui nessuno si sente minacciato. Se costringeste qualcuno dei padroni e dei soloni che immaginano di padroneggiare o di spiegare il funzionamento di un mondo di cui hanno perduto da tempo, ammesso che l’abbiano mai avuta, ogni bussola, a render conto dell’indifferenza a “emergenze” immemorabili e recidive come la povertà , vi direbbero che il mercato è inesorabile, e che la bontà non si quota in Borsa. Be’, possono sbagliarsi perfino in questo. La bontà vale per sé, per chi se ne intenda. Ma ogni tanto ai poveri assoluti e ai poveri relativi e ai poveri imminenti e a una quantità di altri impauriti e offesi torna la voglia di radunarsi e gridare di nuovo: “Pace alle capanne! Guerra ai palazzi!”. Tanto più si fa esplosiva questa voglia quanto più la povertà più nera fa brillare la disuguaglianza. E la cosa, ogni volta che avviene, non manca di portare con sé una quantità di conseguenze economiche e finanziarie. Non lo si vede mai abbastanza, prima. Prima, i cahiers de doléances sono solo noiosi quaderni di lamentele. Dopo, cambia tutto. Dopo, che si sia surclassato il protagonista dei vangeli coniando l’espressione “poveri-poveri”, prenderebbe un senso pregnante. “Beati i poveri-poveri, perché di essi è il regno-regno…”.
Il debito che abbiamo con i poveri di casa e del mondo non è “un mostro che finirà per divorarci”? Manovra è anche termine navale. Il ministro dell’economia e delle finanze ha ricitato il Titanic e ammonito i soliti della Prima Classe. Bastava la vecchia mezza verità che siamo tutti sulla stessa barca. Però, anche a voler abbracciare il trionfante interclassismo selvaggio, resta la differenza fra chi è ai remi, chi frusta i rematori, il capitano, e il cognato dell’armatore salito per diporto. Fra chi riempie l’intervallo prima di andare a sbattere ballando il fox-trot, o vomitando nella stiva. Il ministro e gli armatori non sanno quanto è fondato l’ammonimento. Rimane comunque la domanda che un buon numero di umani si facevano quando non era ancora così chiaro che si stava andando a sbattere, tutti quanti, in solido, e i pochi ballavano e i molti remavano e vomitavano nella stiva: anche ammesso che i milioni di poveri-poveri e di poveri-e-basta non trascinino a fondo i ballerini, è giusto che a loro sia riservato l’inferno in terra e in mare?
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