by Sergio Segio | 12 Luglio 2011 6:43
Una fabbrica è proprietà privata. Non si entra in una fabbrica se non per lavorare. Una fabbrica è ancora il luogo del conflitto di classe. Sì, quello dell’Ottocento, del Novecento e anche del Nuovo secolo. Quello tra operai e padroni. Sempre quello. Conflitto fintamente sopito, oggi. Vissuto in silenzio tra rancori e umiliazioni, rassegnazioni, fatica, ricatti. Paure. Durante i turni interminabili di notte, durante i ritmi pesantissimi. E qualche momento di ribellismo. Bisogna lavorarci e entrarci in una grande fabbrica, per capire.
Giovanni Barozzino ha deciso di raccontarcela – brutalmente – la vita in fabbrica. Nella fabbrica modello di Melfi, Basilicata, sud Italia. La fabbrica più produttiva d’Europa. La fabbrica integrata, quella della partecipazione, del nuovo modello produttivo ergonomicamente compatibile. Degli operai senza la tuta blu: verde-amaranto l’avevano scelta. Il “prato verde” della produzione snella, del toyotismo all’italiana senza storia sindacale, dell’ultimo romitismo, del just in time all’inizio degli anni Novanta. Della fabbrica costruita con gli aiuti statali e sotto la minaccia di trasferire tutto in Portogallo. La fabbrica dei diritti negati. Con la metà degli operai – dopo vent’anni dall’apertura dello stabilimento – con ridotte capacità lavorative. La nuova fabbrica del «signor Sergio Marchionne», ora. Giovanni Barozzino, classe 1964, è un operaio, figlio di operaio. E’ stato anche in Canada a fare l’operaio. E’ un sindacalista della Fiom. Sindacalista estremista, secondo la vulgata. Contrapposto a quelli moderati, perlopiù filo aziendalisti. Ragionevoli e spesso complici.
Giovanni Barozzino ha scritto un libro per raccontare la sua storia e la vita nella fabbrica che non lo fa lavorare più. Lui è uno dei tre operai licenziati dalla Fiat (che a Melfi si chiama Sata perché le newco non sono un’invenzione di Marchionne) un anno fa con l’accusa di aver sabotato la produzione, di aver impedito il passaggio di un carrello. Il giudice del lavoro l’ha reintegrato riconoscendo un comportamento antisindacale da parte dell’azienda. E poiché questa è la ragione del suo reintegro, la Fiat non lo fa lavorare in linea ma gli ha messo a disposizione una saletta sindacale. Lontano dai suoi compagni che dovrebbe tutelare e rappresentare. Sindacalista a distanza. Confinato e stipendiato.
Il libro di Barozzino si intitola «Ci volevano con la terza media» (Editori Internazionali Riuniti). Perché è da lì che si parte. Da quelle visite mediche «a dir poco imbarazzanti», con «infiniti colloqui con dottori, psicologi, ingegneri, ortopedici, oculisti». Solo per fare l’operaio di linea. L’operaio massa senza soggettività politica. Eppure siamo nel 1995. Scrive Barozzino: «La Sata cercava carne fresca, giovani e inesperti da inserire nel suo laboratorio. Ci volevano così. Giovani e ignoranti. Ci volevano con la terza media». Prima il contratto di formazione e lavoro, poi l’assunzione a tempo indeterminato. Tutti under 32. «Durante il contratto di formazione – ho vergogna anche solo a ricordarlo – ho messo la mia dignità sotto i piedi pur di conservare il posto di lavoro. Ho lavorato finanche con la febbre. Quelle condizioni erano disumane. E infatti in tanti non ce l’hanno fatta». E ancora: «Durante la “doppia battuta” notturna (dodici notte consecutive, ndr), mangiavo a malapena una volta al giorno. Avevo sonno quando dovevo lavorare e facevo il sonnambulo quando dovevo dormire. Mal di testa e dolori dappertutto». Vita di fabbrica. Di quella fabbrica dove – dice Barozzino – vigono i “comandamenti Sata”: 1) vietato ribellarsi alle postazioni massacranti; 2) vietato fare malattia; 3) vietato infortunarsi.
Si sfarina così la solidarietà nella comunità . Ciascuno per sé. Zitti e obbedienti. Isolati e gonfi di paura. Perché ci sono anche le ritorsioni familiari per i sindacalisti più agitati. Nel 2003 la Fiat emette novemila provvedimenti disciplinari. Umiliazioni private e pubbliche come quella della lettura collettiva delle contestazioni aziendali. Di accuse per presunte negligenze pure quando non si era in fabbrica perché infortunati. «Tutto quello che succedeva non riuscivo a spiegarmelo. Forse perché eravamo una classe operaia ancora giovane o forse perché eravamo tanti operai, ma non ancora una classe».
Nel 2004 arriva la “Primavera di Melfi”, la rivolta contro quelle condizioni di lavoro (lavoro?), contro i salari più bassi rispetto al resto del gruppo automobilistico. Ventuno giorni «di resistenza». «Non eravamo tutti rassegnati a questo sistema di cose. Provavamo a resistere». E vincono gli operai, nonostante le divisioni sindacali, nonostante un’opinione pubblica inizialmente non favorevole.
Poi arriva «il signor Marchionne», quello che «vuol far credere che in Italia siano proprio gli operai che non vogliono lavorare. Mi chiedo se c’è davvero qualcuno che può credere a una simile fandonia». E arriva la notte del 6-7 luglio 2010. Un problema nella linea. Un diverbio. Parole grosse. Lo sciopero. L’accusa pretestuosa di sabotaggio: «infame contestazione». La sospensione e la lettera di licenziamento. L’umiliazione. La difesa della propria dignità . La protesta estrema, tre giorni e tre notti sulla Porta di Venosina di San Nicola di Melfi. La solidarietà di Napolitano. L’attenzione dei media. Per una estrema lotta operaia, contro una «vergogna vergognosa». Perché «la Fiat non è quella della pubblicità ».
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